Sono arrivati dagli aeroporti, perché non avevano dove altro andare, dai palazzi occupati della Garbatella perché lo spazio è quello che è e te lo devi far bastare, dalle ambulanze messe in fila nei pronto soccorso quando i posti in ospedale sono diventati preziosi per darli a chi aveva pochi sintomi e nonostante tutto col virus ci conviveva. Li chiamano ospiti sanitari, sono alloggiati in cinquanta camere di albergo affacciate su un giardino arioso nel quartiere di Rebibbia, sono tra i primi ad aver sperimentato il sistema degli alberghi Covid, quello che oggi a seconda ondata in corso potrebbe aiutare gli ospedali a reggere, creando una terra intermedia tra i reparti e la medicina di territorio, utile a scaricare una parte della domanda di assistenza legata al virus e a fare spazio a tutti gli altri malati quelli che silenziosamente rischiano di essere lasciati indietro.

Ospiti, dunque, nel senso più nobile del termine. «Possono guardare dalla finestra ed è una consolazione nell’isolamento», dice Antonella De Gregorio, vicepresidente della Federalberghi romana e titolare dell’hotel e del suo giardino, uno dei dieci alberghi romani che dalla primavera scorsa hanno iniziato a ospitare i pazienti contagiati da Covid-19.

L’albergo si presta perché ha accesso riservato al personale e poi è stato diviso in un’area verde e una area rossa. La titolare ha adottato il linguaggio del personale sanitari: «Quando i medici con tuta e presidi escono dalla zona rossa, arrivano all’area di accesso dove possono spogliarsi e dove trovano i contenitori dove gettare il materiale contaminato». 

La procedura è standardizzata. La Asl si occupa delle pulizie, dell’assistenza, della cura e anche del cibo. . Il personale sanitario è specializzato: coordina trasferimenti, assistenza e esami periodici. Mentre lo Spallanzani ha organizzato i corsi per istruire i dipendenti delle strutture alberghiere. 

Nella Capitale, secondo i dati forniti dalla Regione, ci sono nove alberghi che accolgono i positivi, uno i negativi, in via di guarigione. Considerando l’intero Lazio si arriva a tredici, per un totale di 724 posti, 250 ancora liberi.  Si tratta di più del doppio dei 300 posti disponibili nelle 8 Rsa dedicate ad ospitare i pazienti anziani contagiati. Ma il numero è destinato a salire: lo Sheraton gestito dall’Asl Roma 3 ora ne ospita 93, ma può ospitare 169 persone. Soprattutto da qualche giorno ha iniziato a ospirate anche i malati in via di guarigione per cercare di defaticare gli ospedali. 

Simona Amato, direttrice sanitaria della Asl che coordina il progetto, spiega: «Abbiamo la possibilità di introdurre pazienti che hanno superato la decima giornata di polmonite lieve e che finora stavano solo all’interna di un reparto di medicina, ma che qui continuano a essere seguiti attraverso una forma alternativa: l’obiettivo è ridurre il sovraffollamento e rendere più facile il ricover di chi ha sintomi gravi». 

Bombole e saturimetri

Lo Sheraton ha già accolto dieci cittadini che hanno bisogno di ossigeno a basso flusso, altri 39 posti letto sono liberi. Secondo la direttrice sanitaria questo progetto pilota è una buona risposta all'emergenza. Il personale medico viene dalle unità speciali di continuità assistenziale. Di giorno ci sono tre medici e due infermieri, un infermiere e un medico la notte. 

Mentre in tutto il territorio nazionale, i bandi per gli alberghi protetti si moltiplicano – il 9 novembre ne sono stati lanciati sia a Firenze che a Reggio Emilia – a Roma si sperimentano, dunque, gli alberghi del respiro, purgatorio dell’epidemia, dove stanno quelli che potrebbero essere curati a domicilio, ma che qui trovano una assistenza 24 ore su 24. 

Francesca Leone, cooordinatrice degli infermieri per il dipartimento prevenzione, spiega che prima della sperimentazione anche qui sono stati accolte persone positive con una situazione abitativa o condizione temporanea che non permetteva di fare la quarantena. 

Trenta euro a stanza

La Regione ha pubblicato il primo bando per gli alberghi in aprile nel pieno della prima ondata. Il contratto con la regione è di 30 euro a stanza per l’occupazione degli spazi. Ci si pagano le bollette e la locazione, perché il proprietario ci è venuto incontro, dice De Gregorio, poco altro. La clausola è che almeno metà delle stanze devono essere riempite, perché valga la pena per l’albergatore trasformare il suo albergo in una struttura adatta al ricovero dei positivi.

Ci si pagano anche i turni del personale alla reception c-inque persone che hanno potuto continuare a lavorare e l’albergo è rimasto aperte, con le sale della colazione vuote, e gli ospiti chiusi nelle loro stanze: la dimensione più vicina ai sistemi di isolamento che abbiamo visto altrove, una speranza per tenere sotto controllo il contagio e uscirne insieme. Il telefono della portineria è passato dall’accettare le ordinazioni del minibar ad ascoltare persone che spesso hanno paura: «Non tutte hanno la capacità psicologica di affrontare l’isolamento», ci sono i telefonini e le chiamate ai famigliari, ma è sempre una quarantena.

Non è stato semplice nemmeno convincere il personale a lavorare. «Ma il sistema è talmente controllato che nemmeno l’esterno della struttura. L’attenzione è tale che non abbiamo nemmeno buttato lo sfalcio del giardino, persino le foglie degli alberi cadute sono state gettate in sicurezza», dice la titolare dell’albergo di Rebibbia

Cinque persone ventiquattro ore su ventiquattro, pronti ad aprire le porte alle ambulanze, prima coi trasferimenti da Ciampino e i treni e gli aerei, poi quelli in arrivo dal pronto soccorso. «Abbiamo un servizio multilingue, l’albergo più di un ospedale è abituato a parlare con tutti».

Quando è  scoppiato il cluster nel palazzo occupato della Garbatella, sono arrivate con bambini piccoli. E poi i ragazzi di ritorno dalle vacanze, mandati qui piuttosto che infettare i nonni. Ma la regola è non chiedere da dove arrivano e De Gregorio vorrebbe che le venisse riservata la stessa discrezione: non dire nemmeno il nome dell’hotel. La paura, dicono dall’associazione di categoria è di essere associati al virus.

«Sono contento che la regione abbia rilanciato l’idea delle strutture che servono per chi ha sintomatologia lieve senza avere un ricovero o per chi è in via di guarigione con netto miglioramento. Abbiamo lanciato un appello almeno un mese e mezzo fa perché quello che serve ora è recuperare un equilibrio nei carichi assistenziali». Secondo Magi spesso ci si dimentica che non sono spariti gli altri reparti degli ospedali: dobbiamo garantire che il malato cronico, oncologico e cardiopatico riceva le cure, che si possa curare un’appendicite. Allo stesso tempo la sanità territoriale non può essere l’unico punto di riferimento.

Risposta alla crisi

Per gli alberghi la ragione della scelta è economica. 

Il presidente di Federalberghi Roma Walter Pecoraro ricorda che il 60 per cento delle imprese alberghiere sono in affitto e questo è uno dei motivi principali che può decidere chi riaprirà e chi no dopo la pandemia. E tuttavia non si è trattato di una scelta semplice: i contratti con la regione vengono rinnovati di mese in mese: «Non è stato facile organizzarsi». Ma se questo vale per gli alberghi, non va meglio per i medici. La maggiorparte dei componenti delle unità di crisi, quelle che svolgono attività negli hotel, ha risposto a bandi ad hoc. Alcuni hanno contratti di collaborazione coordinata continuativa. Sono insomma sistemi fragili, temporanei, provvisori quanto i loro ospiti che vanno e vengono.

Magi è consapevole del problema. «Non si capisce perché non si può assumerli a tempo indeterminato: sappiamo già che il 30 per cento dei medici andrà in pensione, non ci sarà nemmeno bisogno di nuova copertura economica. Se io ho il frigo vuoto non compro il monopattino, e adesso abbiamo il frigo vuoto». Come quello di una stanza d’albergo.

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