L’ultima immagine di cinema concessa è quella milanese col cappello di lana calato sulla fronte come un Tomas Milian nei panni dell’ispettore Nico Giraldi. Da tempo José Mourinho era più cinema che calcio, entrambi in decadenza, qualcosa tra Nanni Moretti e Woody Allen, un continuo ripetere sé stesso senza più magia, infatti aveva dichiarato di non essere Harry Potter, e poi niente più colossal, ultima volta a Madrid, non a caso anche il cinema americano chiude con quella larghezza di manica a Roma con Gangs of New York di Martin Scorsese.

Roma era l’ultima possibilità che il calcio europeo concedeva a Mourinho e al suo cinema, poi ci sarà il Mourinho d’Arabia o Mourinho a Miami, un cinepanettone, tanto ormai li fa anche Roman Polanski.

In questi tre anni i romani gli hanno perdonato tutto: cattivo gioco, aggressività inutile in campo e fuori, liti, giudizi superficiali, auto-narrazione che diventava canto omerico con Federico Buffa contento di fargli le domande in portoghese meglio di Tabucchi su una terrazza romana, promesse, letture delle partite da realismo magico, complotti contro la Roma, spese per Dybala e Lukaku, il primo tanta lirica con «echi del mal sottile» quindi Verdi, Puccini e moltissima tribuna: quasi un infortunio per gol; e il secondo un grande pivot che fa le sponde per far calciare fuori gli accorrenti della Roma: da Mancini a Belotti, dove un tempo c’era Lautaro Martínez che la metteva in porta quasi sempre.

La caduta

Più cinema che realtà. Di calcio nemmeno a parlarne, una coppa – quella dei sesti – la Conference League, fatta passare come la Champions League e vinta con tanto onorevole breriano catenaccio che nemmeno in serie B sanno più fare, presi come sono dal contagio guardiolesco; una finale di Europa League persa che diventa un lungo elenco di scuse come quelle di John Belushi a Carrie Fisher in The Blues Brothers per non farsi sparare.

Ma che cosa Friedkin e Roma non hanno perdonato a Mourinho? La cosa più romana di tutte, il derby, anzi i derby. Persi. La Lazio stropicciata di Maurizio Sarri, masticata dal latino di Lotitus, un po’ Orazio e molto Montesano, un lamento per cross, eppure «se l’è bevuta» come si sarebbe detto un tempo a Tor di Valle, ippodromo, centro di Febbre da cavallo.

(Dan) Friedkin, presidente della Roma, non a caso omonimo di un grande regista (William) Friedkin, pur non diventando mai tribuno, e mancando alla piazza, nella sua infinita assenza kubrickiana, con questa mossa dell’esonero di Mourinho, una mossa preceduta dall’allontanamento di Tiago Pinto – un repulisti – si è dimostrato più romano dei romani, perché c’ha piazzato la bandiera Daniele De Rossi, di meglio c’era solo il bandierone della curva sud e quindi Francesco Totti che per ora non allena.

Come un film

In pratica con Friedkin che esonera Mourinho si ribalta la scena di Steno di Un americano a Roma, dove Alberto Sordi annunciava ai «macaroni» di rispondere alla provocazione magnandoseli, qua sono i «macaroni», noodles direbbe Friedkin, che si son magnati Sordi. «E bonanotte popolo», avrebbe detto Luigi Magni.

Mourinho è l’ultimo dei felliniani, tantissimo fumo e lune lontanissime, molti Ginger e Fred che ballano – male – in campo, bugie a pioggia e l’uso sapiente della crisi, da Otto e mezzo alla “Mezza League” che ricorda «la mezza porzione» di Scola in C’eravamo tanto amati.

Josè è un artista della trasformazione, sembra Gigi Proietti di A me gli occhi, please e il venditore Pietro Ammicca, «oh, quanto ha ammiccato Mou», e quanto è piaciuto a Roma «de cascacce». Lo sapevano tutti che era una illusione, eppure ne avevano bisogno, se ne sono nutriti, hanno accettato capricci, racconti, ribaltamenti, ogni conferenza stampa sembrava di sentire Carlo Verdone che ricordava Mario Brega che picchiava Gordon Scott, una iperbole dietro l’altra, grandi titoli, servizi speciali, libri. E poi quanto funziona la persecuzione?

Mourinho come Gian Maria Volonté in Sbatti il mostro in prima pagina di Marco Bellocchio: Sbatti gli arbitri in prima pagina. C’è chi ce campa, per carità. Ma poi c’è il campo, e la noia del gioco, e la sofferenza, e le sportellate, e non sempre riesce la trincea, e soprattutto la Lazio, che vince, e ti arriva anche davanti.

L’impatto col sarrismo

Sarri contro Mourinho ha vinto quattro derby, ne ha pareggiato uno e perso uno. Sarri non è cinema, al massimo cabaret confidenziale, eppure porta a casa i risultati, l’altra sponda romana festeggia, umilia, sfotte.

La Roma dello Special One non è mai andata in Champions League e data per favorita al suo secondo anno in serie A, arriva sesta, col Napoli che vince lo scudetto.

E la Roma di quest’anno? Un remake, sembra Guadagnino che rifà Dario Argento, tanto che era lo stesso Mourinho a lamentarsi del Mourinho precedente, in una meta narrazione, che avrebbe fatto dire, sommessamente, «a rega’ qua nun ce se capisce più un ca’».

Mou le ha provate tutte, pur di non ammettere che non c’era gioco, sostanza, trama, ed ha resistito il girone d’andata, poi pure Friedkin e il più paziente dei romani ha sentito la violazione più grande, l’unico vero peccato mortale: perdere il derby in versione speciale di Coppa Italia, e da lì non si è capito più niente.

Mentre Mourinho – che poi ci spiegherà che si faceva espellere per tenere compagnia a Dybala e per un progetto di un musical su Evita a Roma con Messi, “Nun piagne Roma, ce stanno Evita, Paulo, Mou e Lionel” – passava il tempo a costruire trame da Star Wars con gli arbitri italiani che usavano il Var impropriamente, Friedkin – romanamente – scriveva la nuova sceneggiatura.

Chiuso il cinema Mourinho, come era successo allo Splendor di Scola e al Nuovo Paradiso di Tornatore, apre il De Rossi che sarà una macelleria, carni all’ingrosso, una storia semplice, dove il cinema in casa è quello della moglie, Sarah Felberbaum, un passo di lato. Mentre ci sarà qualcuno che all’aeroporto o su un giornale chiede a Mourinho: «Facce Tarzan».

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