Il tempo è galantuomo e dopo sette anni di processo Piero De Luca, figlio del governatore della Campania Vincenzo e deputato dem, è stato assolto dall’accusa di concorso in bancarotta fraudolenta. La procura di Salerno gli contestava di essere il socio occulto della società Ifil, amministrata di fatto da Mario Del Mese, nipote dell’ex sottosegretario democristiano Paolo, che pagò biglietti aerei (da e per il Lussemburgo) per 24mila euro a De Luca jr. In cambio Del Mese avrebbe fatto lavorare la società in parecchi cantieri appaltati dal Comune di Salerno senza mai partecipare a un bando pubblico.

Le indagini sulla Ifil nacquero dall’inchiesta sul fallimento del pastificio Amato che pure vedeva Del Mese nel ruolo di “faccendiere” e che cominciò a svelare presunti legami tra potere politico e imprenditoriale. Piero De Luca venne iscritto nel registro degli indagati a giugno 2014 e non era di certo quello il momento giusto per far parlare di sé. Il padre era per la quarta volta sindaco di Salerno e stava già in campagna elettorale per le regionali del 2015, in più era imputato in vari processi (finiti tutti con un’assoluzione). Il figlio invece era referendario della Corte di Giustizia europea e come suo padre aveva anche lui velleità politiche, infatti mancavano quattro anni alle parlamentari. I tempi della giustizia non giocavano per niente a loro favore e, dagli atti di indagine, si capì subito che il processo non poteva essere evitato nonostante Piero De Luca avesse più volte ribadito agli inquirenti che aveva restituito i soldi dei biglietti in contatti e che lui con la Ifil non aveva mai avuto a che fare.

L’accusa di bancarotta fraudolenta invece sì che si poteva evitare e derubricare ad appropriazione indebita. Difatti l’allora pm titolare dell’inchiesta, Vincenzo Senatore, aveva chiuso l’atto di conclusione indagini con una contestazione alternativa: tutto dipendeva dal tribunale fallimentare di Salerno a cui il sostituto aveva già chiesto il fallimento della Ifil. Ma il 19 dicembre 2012 la Fallimentare rigettò la richiesta perché riteneva che la Ifil dovesse incassare un credito di 178.000 euro dalla “Amato Re”, la società immobiliare che i proprietari del pastificio Amato avevano costituito per trasformare il vecchio opificio industriale in un complesso immobiliare i cui appartamenti dovevano essere venduti proprio dalla Ifil.

In realtà però anche l’immobiliare dei pastai salernitani era stata dichiarata fallita e, scriveva il curatore, quel debito non avrebbe mai potuto onorarlo. La Ifil si salvò anche grazie all’Agenzia delle Entrate che non sapeva nulla dell’esistenza di Mario Del Mese e della società fino a quando, nel gennaio 2013, i finanzieri del nucleo di polizia tributaria non richiesero copia dei documenti relativi alla società. Si scoprì così che il “faccendiere”, che aveva patteggiato la pena per il crac del pastificio Amato, non presentava una dichiarazione dei redditi dal 2005 e che la società aveva un debito di 251mila euro nei confronti dell’erario.

Ma neanche questo bastò: il giudice Sergio Jachia si oppose per la seconda volta sostenendo che «ci troviamo di fronte ad un solo creditore sociale, l’erario, e quindi, non essendovi una pluralità di creditori, non vi può essere il rischio di una lesione dei suoi diritti». Non restò dunque che andare in appello, ma anche qui il procedimento si arenò e il pubblico ministero non poteva di certo depositare la sua richiesta di rinvio a giudizio con una contestazione alternativa.

Tra richieste di rinvii, nomina di nuovi consulenti e proroghe per il deposito delle perizie trascorsero altri due anni, ma non senza colpi di scena. Il più eclatante scoppiò a metà 2013, quando i finanzieri su mandato della procura andarono in cancelleria per ritirare la perizia del consulente e non trovarono il fascicolo della Ifil. Era scomparso, salvo ricomparire misteriosamente poco prima che la polizia giudiziaria riconsegnasse copia degli atti.

La Ifil fu dichiarata fallita a marzo 2015 e il pm riuscì così a depositare la richiesta di rinvio a giudizio con un unico capo di imputazione. Mario Del Mese aveva già patteggiato, mentre Piero De Luca si avviava verso il processo. Ma nuovi ostacoli erano all’orizzonte. Il tribunale fallimentare aveva nominato Ivan Meta curatore della Ifil, commercialista ma anche presidente di una municipalizzata del Comune di Salerno. Incompatibilità ambientale? Per il pm Senatore non c’erano dubbi e, dopo aver espresso le sue perplessità alla Fallimentare, Meta rinunciò al mandato.

Ci vollero altri due anni per fissare l’udienza preliminare e poi il 2 marzo 2017, nell’aula del gup Sergio De Luca, il difensore del quasi deputato dem cercò di far tornare il fascicolo sulla scrivania del pm perché sosteneva che nell’avviso di conclusione indagini non compariva l’accusa di essere socio occulto della Ifil. Insomma, c’era da prendere ancora tempo: Piero De Luca a giorni sarebbe stato al Lingotto di Torino per sponsorizzare la sua prima candidatura alla Camera con il Pd. Ma il 17 marzo 2017 arrivò il decreto di rinvio a giudizio e il 29 maggio successivo cominciò il processo.

Poi, dopo sette anni, l’assoluzione in primo grado «perché il fatto non costituisce reato».

A volte anche i tempi lunghi della giustizia sono galantuomini. Ma non per tutti. Tre anni fa Mario Del Mese è stato coinvolto in un’altra inchiesta su appalti pubblici a Benevento e Caserta. Piero De Luca, invece, è stato eletto deputato per due volte proprio nel collegio blindato di Caserta e attualmente è membro dell’Assemblea nazionale del Pd e segretario del gruppo parlamentare dopo il declassamento da vicepresidente voluto da Elly Schlein, ma solo per ragioni di correnti interne al partito. Anche il giudice che si è opposto per due volte al fallimento della Ifil ha fatto carriera: da qualche anno è presidente della sezione fallimentare del Tribunale di Salerno.

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