Antonia Colavito, Arianna Virgolino, Claudio Benasio. Sono i nomi di alcuni poliziotti a tempo licenziati dopo qualche mese di servizio per un tatuaggio e rimasti senza lavoro. Le loro storie, che Domani ha raccolto, sono solo alcune delle tante che hanno incrociato norme datate e rigidità burocratiche. Hanno anche affrontato inutilmente dispendiosi contenziosi in sede amministrativa e i casi sono stati portati all’attenzione dei vertici. 

Qualche giorno prima di lasciare la scrivania di capo della polizia per trasferirsi a palazzo Chigi, dove il 24 febbraio scorso è stato nominato sottosegretario alla presidenza del consiglio nel governo Draghi con la delega ai servizi segreti, Franco Gabrielli ha ricevuto l’ennesima lettera sindacale sulla questione della presunta disparità di trattamento nei confronti degli agenti.

Tutto ruota proprio attorno ai famigerati tatuaggi. In sostanza, i sindacati contestano all’amministrazione alcune condotte punitive che sarebbero state attuate nei confronti di alcuni dipendenti licenziati in tronco, evidenziando, inoltre, «i due pesi e due misure» che in riferimento alle stesse, identiche, situazioni giuridiche, non sarebbero state adottate, invece, per altri poliziotti.

Sulla possibile disparità di trattamento nelle scelte operate dal ministero si occupa lo stesso Consiglio di stato, che in una recente sentenza del dicembre del 2020 ha scritto, in merito a un concorso, «di circostanze che hanno sì comportato una diversità di trattamento, in concreto, delle singole posizioni pur identiche o assimilabili tra di loro».  

La norma, nonostante le promesse disattese della politica, prevede l’assenza di tatuaggi al momento del concorso, come requisito indispensabile, ma la situazione diventa paradossale visto che dopo il superamento del concorso diversi agenti esibiscono un tatuaggio senza alcun problema.

Oltre l’atteggiamento processuale, la cui responsabilità è in capo all’avvocatura dello stato che rappresenta il ministero, l’amministrazione della polizia si trova “inerme” di fronte alla rigidità delle norme e anche a evidenti contraddizioni.

Poliziotti cacciati per un tatuaggio, ma molti in servizio ne hanno uno. Gli esclusi ricordano il caso dell’attuale vicecapo della polizia, una brillante investigatrice come Maria Luisa Pellizzari, che ne ha uno sul polso, ma realizzato dopo l’ingresso in ruolo. Oltre le pastoie burocratiche, le carte bollate e i ricorsi ci sono le storie di vita, delle persone che hanno perso un lavoro per cui erano disposte a sacrificare tutto.

Nel nome di quello stato che, li ha allontanati, durante la pandemia, non per disonestà, collusione, ma per un tatuaggio. Claudio Benasio si considera «un agente di polizia ingiustamente escluso». «Avevo un tatuaggio in cui era raffigurato una donna alata con un gattino sul fianco. Rappresentava mia nonna che è stata per me un po’ come una seconda mamma», dice. E poi: «Nello stesso mese in cui decidevo di candidarmi al concorso, però, nel maggio del 2017, appunto, iniziavo il processo di rimozione, sottoponendomi al laser, una terapia particolarmente ustionante che colpisce il pigmento dell’inchiostro e lo distrugge, polverizzandolo».

Eppure, ha riferito l’ex poliziotto: «Dopo aver superato in maniera brillante le prove scritte, al termine delle prove fisiche mi veniva consegnato dalla commissione medica il verbale di non idoneità». Da quel momento in poi per Claudio Benasio sarebbe cominciata un’odissea.

Così su suggerimento del legale, racconta, «ho impugnato il provvedimento di esclusione al tribunale amministrativo del Lazio, allegando la documentazione fotografica da cui si evinceva l’assenza del tatuaggio. Il tribunale amministrativo, in via cautelare, mi concedeva la possibilità di terminare le ulteriori fasi del concorso; il sogno di indossare la divisa della polizia si è avverato il 30 ottobre del 2018, data in cui sono stato convocato per cominciare il corso di formazione presso la scuola allievi agenti di Alessandria».

Benasi, in attesa dell’esito giudiziario, viene assunto come infermiere, ma rinuncia per inseguire il sogno della divisa. Peccato, però, che il 25 luglio del 2019, dopo quasi un anno di addestramento, il giuramento alla bandiera e l’assegnazione nel ruolo alla polizia stradale di Torino, scopre che l’amministrazione aveva fatto ricorso contro la sua assunzione e così la quarta sezione del Consiglio di stato, accogliendolo, ne aveva, di fatto, decretato la sua sospensione dal servizio.

Una storia simile a quella di Antonia, detta Tonia, Colavito, rimasta senza lavoro in piena pandemia, con due bambine e un marito disoccupato al quale non avevano rinnovato il contratto. «Mi sento distrutta, calpestata nella mia dignità. Ho fatto per pochi mesi la poliziotta, era il lavoro che sognavo. Il tatuaggio non l’ho rimosso prima del concorso perché non potevo, ero in allattamento e i medici me lo hanno sconsigliato», dice l’ex agente.

Così Colavito si affida alla giustizia amministrativa, ma l’esito finale è lo stesso di Benasi e, dopo pochi mesi in strada da poliziotta, viene licenziata. Per lei è un’amara sconfitta, punita per quelle tre stelline, rimosse troppo tardi. Anche Arianna Virgolino si considera «una ex appartenente alla polizia di stato ingiustamente esclusa», e pure lei il tatuaggio l’aveva fatto rimuovere dopo varie sedute di laser.

La sua storia presenta molte similitudini con quelle di altri colleghi. «Mi sono licenziata da un lavoro che svolgevo precedentemente per poter seguire la mia vocazione. Ho passato un anno a studiare per partecipare al concorso del 2017 e, alla fine il mio grande impegno era stato ripagato. Avevo totalizzato un punteggio di 79 risposte esatte su 80. Avevo occupato, quindi, uno dei primi posti nella graduatoria». Virgolino elimina il tatuaggio dopo 9 sedute di laser terapia.

Ma dopo il danno per Virgolino arriva la prima beffa. Perché, dice, «la stessa commissione medica esaminatrice dopo avermi consegnato il verbale di non idoneità, mi suggeriva di presentare il ricorso al Tar del Lazio. Il giudice amministrativo accoglieva la domanda, consentendomi, così, di proseguire l’iter concorsuale».

Arianna giura, ma la beffa definitiva arriva, nel marzo del 2020, quando viene rimossa ufficialmente dall’incarico, in conseguenza dell’appello presentato al Consiglio di stato dal Ministero dell’interno, e in cui si legge: «La normativa è chiara nel ritenere un nocumento all’immagine della polizia di stato, la presenza di un tatuaggio di dimensioni non trascurabili, in una parte del corpo non coperto da uniforme».

Virgolino, intanto, disperata per questo licenziamento in tronco, si difende e attacca: «La maggior parte dei miei, ormai ex colleghi sono pieni di tatuaggi ovunque e addirittura li mettono in bella mostra sui social. Come è possibile?». Il problema è la norma che consente queste storture e che apre a evidenti contraddizioni. Una storia che riguarda anche l’arma dei carabinieri. Nicola De Ceglia entra nell’arma dei carabinieri, dopo aver superato il concorso, nel 2002. Nel 2019, circa 17 anni dopo, rientra, a seguito di un breve infortunio, in servizio.

«Io avevo qualche tatuaggio sul braccio che non aveva mai rappresentato un problema, al mio rientro mi presento con l’intero braccio tatuato non temendo alcuna conseguenza visto che ci sono colleghi tatuati dalla testa ai piedi». In realtà, qualcosa succede, viene avviato un procedimento disciplinare che si conclude con il licenziamento perché «non ero più impiegabile in nessun modo».

Inizia un contenzioso, De Ceglia, difeso dall’avvocato Giorgio Carta, presenta ricorso, il tribunale amministrativo annulla il provvedimento dell’arma, ma il pronunciamento viene ribaltato dal Consiglio di stato che conferma il licenziamento. «Io sono fuori e decine di colleghi sono ancora in servizio e tatuati. Nei reparti speciali quasi tutti sono tatuati», dice De Ceglia che dopo aver venduto casa e moto, è riuscito a entrare in un’agenzia di vigilanza privata. 

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