La storia ha già inserito Porpora Marcasciano nel mito. Si diventa miti per caso o per impegno. La mia impressione è che Porpora Marcasciano, sociologa, attivista e scrittrice, si trovi in mezzo. Lo sia diventata per caso, grazie a questo tempo povero di esempi e personaggi, costellato da mezze tacche che riflettono ombre da giganti. Un’identità forte può aiutare. Avere una visione e uno sguardo sulle cose che vada oltre la ricerca costante della ribalta e dei titoli di giornale è qualcosa che consegna inevitabilmente alla storia.

Non nego che mi viene difficile essere obiettivo su Porpora Marcasciano, per me è una scrittrice sublime. Se vai in libreria, il libraio ti consiglia Porpora come se stesse suggerendo Judith Butler. Se parli con i giovani attivisti Lgbt, questi si illuminano come se parlassero dell’ultima rockstar, una moderna influencer, una diva di qualche reality. C’è anche un gruppo che si fa chiamare “porporini”.

Marcasciano è la presidente onoraria del Mit – Movimento Identità Trans di Bologna di cui è stata fondatrice e attivista. Dagli anni Settanta è militante nei contesti dell’attivismo Lgbtqi, nonché figura storica del Movimento trans italiano e del “primo” Mit (Movimento italiano transessuale).

Porpora Marcasciano più di chiunque ha fatto della propria vita un atto politico. La sua dimensione da persona transgender è una dimensione politica, rivendicando la fluidità come identità. «Ho cominciato a provare disagio nei confronti del mio corpo e ho iniziato un viaggio». 

Ha assunto gli ormoni. Ha sviluppato il seno. Presenta una sessualità varia. Poi, nulla. Grazie di tutto, ci sono. Fatemi scendere. «Mi sono fermata dove ritenevo di aver trovato una meta adeguata». Rifiuta il binarismo di genere. «Io non sono e mi sento una donna», ci tiene a precisare a inizio della nostra intervista. Una precisazione ferma che è più una risposta a chi negli ultimi anni non le risparmia attacchi. A quel femminismo radicale escludente che oggi sulle persone trans vomita ogni nefandezza. Questo è l’unico punto dell’intervista dove la sua voce calma si incrina. Promesse di morte, cocenti ingiurie, oscenità scritte sui social. Una strega da bruciare.

Preferisce che mi rivolga a lei usando il femminile o il maschile?

Sono andata a fasi alterne. Il maschile quasi mai. Il femminile a un certo punto era assodato. Poi ho detto liberamente che era indifferente maschile o femminile. Ultimamente, dato che quasi tutti si rivolgono a me al femminile, lo preferisco. Ma con un grosso chiarimento legato al momento storico e culturale in cui viviamo. Io non sono e non mi sento una donna. Questo lo dico in risposta alle fondamentaliste cosiddette femministe: non mi ci sono mai sentita e ci tengo a dirlo. Io sono trans con tutto quello che questa parola tiene insieme. Uso il femminile perché ritengo che questo linguaggio sessuato imposto non mi preveda e di conseguenza tra gli unici due generi previsti io preferisco il femminile.

Lei è nata il 15 settembre del 1957, ma lei stessa colloca la sua nascita di “orgoglio” al 1973, esattamente a settembre. A sedici anni. Chi era questo adolescente nato più che in un corpo sbagliato, in un mondo sbagliato?

Durante la mia adolescenza capivo che il mondo non mi corrispondeva e io non corrispondevo al mondo. Però è importante anche leggerlo con le condizioni storiche. In quel periodo non c’era il vocabolario che c’è oggi: termini, concetti. Questa parola “omosessuale” si pronunciava a denti stretti. La parola trans non esisteva ancora. Nell’adolescenza cercavo di interpretare tutta la sofferenza dell’adolescenza quando non mi sentivo a mio agio. C’era un disagio di fondo legato al non sentirsi sé stessi e soprattutto a non avere punti di riferimento perché la solitudine è quella che subentra. Però la mia adolescenza, nel mio piccolo paese del Sud, è stata felice. Avevo una vita sessuale intensissima che non ho mai più avuto, se non nel periodo in cui esercitavo la prostituzione. E questa cosa mi dava un senso di orgoglio. I ragazzi del paese più o meno li ho conosciuti tutti, intimamente.

Che rapporto aveva con i suoi genitori? Suo padre era un sostenitore del Duce.

Con mio padre praticamente nessun rapporto. Non percepivo particolari emozioni, trasporto. Mio padre era una persona burbera, autoritaria. Non lo sentivo. Tutto il contrario mia madre che era la mamma. Molti anni dopo mio padre l’ho recuperato, dopo la sua morte nel 1981. Aveva questo carattere burbero che un po’ incuteva timore, però tutto sommato non mi ha mai ostacolato.

Passavo dal Pigneto, a Roma, e su uno dei muri ricoperti di scritte ho incrociato questa: “Se vuoi risposte chiedi al 1977”. Curioso, considerando che avrei dovuto intervistarla da lì a poche ore. Il 1977 ha segnato una rivoluzione che forse non si è mai realizzata.

La mia esperienza politica culturale era centrata nell’ambiente della sinistra più o meno estrema. Nel 1977 arrivò il mio primo anno di università ed esplose questa rivolta che riguardò principalmente l’università. Le mie energie più che sugli studi si concentrarono sulle assemblee, sulle manifestazioni. C’era un fermento che non dimenticherò mai più.

Ma all’epoca si parlava di travestiti?

Esattamente.

Nel 1980 lei iniziò a considerare il transito.

Il mondo trans lo sentivo mio ma lo vedevo distante. Ai miei occhi queste persone erano forti ed estreme. Non mi erano chiari tutta una serie di passaggi. Inoltre, tutte si prostituivano e non avevo chiaro cosa potesse significare la prostituzione. Poi ci arrivai. Il travestitismo non era solo una provocazione ma qualcosa che mano a mano cominciammo a fare nostro. Finché poi ci fu l’arrivo nel gruppo di persone molto più trans che ci introdussero totalmente dentro questo mondo, tra queste Ciro “Ciretta” Cascina. Il transessualismo divenne qualcosa di più vicino e realizzabile per me, Valérie, Robertina, Antonella detta “La merdaiola”, la mia coinquilina e poi maestra di vita. E lì cominciai a conoscere le trans molto da vicino. Anche ai campeggi gay. Cominciammo a sperimentare gli ormoni, qualcuna di noi si vestiva da donna quotidianamente. Io stavo nel mezzo con la storia dell’unisex.

Con la storia dell’unisex lei è finita in prigione.

Nel 1981. Più per il trucco. Andai a lezione di psicologia, l’ultimo esame che avevo. Ed ero truccata. Si vedeva che ero una trans in erba. Uscii e mi ritrovai in mezzo a una retata. Fui fermata in piazza dei Cinquecento, zona equivoca per eccellenza. Portata in questura e arrestata per atti osceni in luogo pubblico. Questa l’accusa. Sulla cella di Regina Coeli dove passai quattro giorni c’era scritto “travestito”. E questo avveniva sei mesi prima dell’approvazione della legge 164 per il cambio di sesso.

Trovarsi dietro le sbarre così giovane, deve aver riflettuto parecchio.

Pensavo: ok, sono in prigione ma nessuno sa niente, i miei niente, i miei amici niente. Come fossi scomparsa. Però nelle celle dove stavo io, nei bracci di isolamento, c’erano tre celle riservate ai travestiti. E sui muri potevi leggere i nomi, i giorni trascorsi. Molte persone le conoscevo.

Lei una volta ha detto che una delle più grandi sconfitte politiche e culturali di quella rivoluzione è stata una riflessione profonda sul proprio sé che ha riguardato soltanto le donne, i gay, altri piccoli gruppi ma non “i maschietti”. Gli anni Settanta sono passati in maniera totalmente indifferente per i maschi?

Non per tutti, diciamolo. Quello che dico è che se tutta quella gente che voleva cambiare il mondo, avesse solo pensato che serviva partire da sé stessi, forse avremmo fatto un po’ più di rivoluzione. Avremmo portato un vero cambiamento. Però all’epoca vedevamo il nemico sempre fuori da sé, mai dentro. I maschi erano i depositari del potere. Questo ha sempre alimentato il patriarcato e loro questo non lo sentivano, non lo vedevano. Certo, per interesse personale. Cosa che invece sentivano le donne.

Lei ha scelto Bologna per le sue lotte di “liberazione”, che è stata per anni la sua Bologna ma anche la città di riferimento della comunità Lgbt. 

Qui il ’77 ha preso una piega particolare. C’erano queste due anime quella politica che noi conosciamo con l’esplosione massima del transessualismo, il Collettivo frocialista. Poi l’anima culturale. Bologna è una città creativa sotto ogni punto di vista. Poi a Bologna c’era il Dams che ha fatto la differenza. Una miscela che ha creato il MIT, il Cassero. La scelta che all’epoca fece il Partito Comunista di darci la sede oggi è impensabile. E ricordo un sollevamento ecclesiastico non da poco, ma loro ebbero la capacità di fregarsene. Comunque, adesso vivo in montagna. Bologna l’ho lasciata e ci vado due o tre giorni a settimana. Ho preferito una dimensione bucolica.

Le chiedo di ricordare qualcosa che lei considera un ricordo brutale: l’epidemia di Aids. Quel tempo così simile a quello di oggi con il coronavirus ma così diverso.

L’Aids si presentò inaspettato esattamente come il Covid. Ma il Covid oggi è un virus democratico, colpisce tutti. Al l’epoca il virus dell’Aids fu subito considerata la peste gay. Furono coniate le cosiddette categorie e rischio: omosessuali, prostitute, tossicodipendenti, quindi chi si trovava dentro queste categorie veniva bollato e marchiato. Cominciammo a sentir parlare all’inizio di questo cancro. Ma i segni non c’erano. Poi questi segni cominciarono a essere manifesti, più che della malattia fisica erano i segni culturali. È stato il periodo della paura, dell’angoscia, della morte.

Lei ha avuto paura?

Molto. Però a quel punto scatta una sorta di reazione di difesa, io vivevo alla giornata. Non potevo pensare a non godermela. Davo per scontato che sarebbe successo anche a me. Mi bastava vedere amici con cui avevamo condiviso pratiche e azioni. Dicevo: ce l’ha lui, prima o poi arriverà anche a me.

Lo ricorda ancora con dolore.

Sì, sì, sì. Sofferenza, paura. Per almeno due o tre anni prima di andare a letto mi guardavo allo specchio mi toccavo le ghiandole del collo. Sa quante volte dicevo: eccolo, ci siamo, sta arrivando. Il 1985 fu l’unico anno in cui non ho vissuto a San Lorenzo. Vivevo a piazza Vittorio, un palazzo con portineria. Al mio passaggio, la portiera inzuppava l’alcool con lo straccio e lo passava sulla ringhiera delle scale dove mi appoggiavo. Lo faceva davanti a me. Eravamo gli appestati. E il Movimento Lgbt non è riuscito mai a fare una riflessione su quello che è stato il risvolto politico, sociale e culturale dell’Aids. Non ci siamo mai soffermati a riflettere. Non siamo riusciti a storicizzare, da lì sono cambiate relazioni, sessualità.

Gli anni Ottanta sono stati quelli del riflusso, ognuno è entrato nella propria condizione privata, abbandonando il pubblico. Lei come ha vissuto quel periodo?

Quello che dilagava oltre l’Aids era l’eroina. Una droga che trovavi in ogni luogo e in ogni dove. Vedevi persone care che morivano di Aids, ma soprattutto quelle tossiche perse. Mi ha salvato l’amore in quegli anni. Ho avuto una grande storia di amore, dal 1982 al 1984, che mi fece stare in una bolla sospesa di gioia e felicità. Poi nel 1986 cominciai un’altra storia durata ventidue anni. Lui che un po’ mi teneva fuori. Inoltre, in quell’anno avevo chiarito il mio essere trans. E la prostituzione in quel periodo fruttava molto. Quei lauti guadagni mi facevano viaggiare: ogni anno a New York, poi mesi in Grecia. E inoltre c’era la scena notturna romana, quella punk dark che faceva riferimento a locali come il Piper e altri locali alternativi di Roma, in quella scena ritrovai il piacere di starci. E lì io ero un po’ un personaggio. Perché di trans non è che ce n’erano tante. Affondai dentro questa spensieratezza per non pensare alle cose pesanti.

Lei prima ha citato questa storia d’amore durata ventidue anni. Il tempo di mezzo di una vita.

Lui si chiamava Marco. Era un ragazzo di vita. Marchettaro, il pupillo di Dario Bellezza e su questo triangolo scrisse un testo che si chiama Serpenta. Si usciva insieme con Moravia e altri personaggi che facevano parte del giro di Dario Bellezza. Marco era un po’ il ragazzo maledetto alla Baudelaire. Ero gelosissima. E’ morto di overdose nel 2007. Un altro pezzo della mia vita che si è staccato.

Qual era il suo rapporto con le droghe all’epoca?

Scellerato. Diciamo con le droghe non mi sono fatta mancare nulla e qualche cazzata l’ho pure fatta. Come diceva Nico, la cantante dei Velvet Underground: “Forti emozioni, forti sedativi”. Ma ho rischiato anche con la politica. Negli anni delle Br ebbi un processo, accusata di falsa testimonianza e concorso in banda armata. Poi decadde per insufficienza di prove.

E invece cosa voleva dire essere una prostituta?

La vita di notte e non di giorno. Io non l’ho mai vissuta come obbligo, forzatura, ma sempre come una provocazione e come un mezzo che mi permetteva di essere me stessa. Forse perché il periodo lo permetteva. La prostituzione era produttiva. Qualcosa di oltraggioso, provocatorio e di bello perché mi divertiva. C’era la parte del lavoro ma anche sessuale. Se fossi ancora in forma lo rifarei.

Essere visibili ieri e oggi è diverso perché?

La visibilità dell’epoca presupponeva un modo diverso di porsi. Oggi la visibilità è legata a un’estetica che non ha un suo fondamento. Pensi al fascista di Forza Nuova: oggi può avere la cresta o non so. Non c’è il significante: gli abiti, i simboli che porti addosso non riportano immediatamente al tuo modo d’essere. La visibilità in quel senso non c’è più. Oggi sei visibile, certo, ma tutti sono visibili e si finisce col diventare invisibili. La visibilità all’epoca come persona gay o trans rappresentava un sentire, una differenza usata soprattutto come provocazione. Qualcuno oggi la chiama ostentazione, ma se non ci fosse stata non saremmo qui a parlarne.

Le persone trans sono sotto attacco. Non parlo soltanto di chi si riempie la bocca con “teoria del gender” e altre fandonie. Penso anche agli attacchi di gruppi interni. Come siamo arrivati qui, che mondo viviamo?

È un mondo confuso. Il discorso che ha portato avanti Arcilesbica non è banale, ha una sua complessità e una sua logica che però va a spezzare il percorso di liberazione. In virtù di questo essenzialismo femminile più che femminista, di questo senso biologico di essere donna, vanno ad attaccare tutto quello che secondo loro compromette la femminilità che è biologica, quindi esattamente il contrario del femminismo. Il contrario di quello che diceva Simone de Beauvoir: donna non si nasce ma si diventa. Lo dico non dal punto di vista trans. Simone de Beauvoir lo considerava dal punto di vista strutturale prima ancora che biologico. Invece Arcilesbica tende a negare percorsi di liberazione altrui, specialmente trans.

Lei si sente minacciata?

Sì. L’ho toccata con mano quell’aggressività. Avevo sottovalutato la questione. Sui social ho ricevuto attacchi da persone che mi davano dello stupratore e mi ricoprivano di ogni sorta di offese, mi davano dell’ignorante. Qui c’è qualcosa che non funziona di fondo. Ho sentito proprio l’aggressività di queste persone che non sono così poche come sembrano.

Quali sono i prossimi obiettivi del Movimento, cosa bisogna fare adesso?

La legge contro la violenza omotransfobica. Perché sta crescendo e qui bisogna pararsi. Una legge non risolverà il problema ma lo tampona e la rende visibile. Va fatta.

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