Perdere è una questione di metodo. Lo ha ricordato Santiago Gamboa, scrittore colombiano assai appassionato del nostro Paese e pure di calcio che ha intitolato così il suo secondo romanzo quasi trent’anni fa. Mai fu inventata espressione più sintetica e completa per definire la sconfitta, la situazione umana che più di frequente popola le nostre vite: ci vuole del metodo per affrontarla e viverla. Il tema torna di attualità perché domani uscirà nei cinema italiani Chi segna vince del regista Taika Waititi: racconto cinematografico di una vicenda realmente accaduta, già raccontata in un documentario di 10 anni fa – Next goal wins – sulla nazionale di calcio delle Samoa americane. Nel 2001 perse 31-0 contro l’Australia una partita di qualificazione ai Mondiali dell’anno successivo in Sud Corea e Giappone.

Il maggior scarto di sempre, che inevitabilmente appioppò alla selezione “sam-ericana” la nomea di peggior squadra di sempre con 30 sconfitte in 17 anni. Un perfetto contraltare della più celebre al mondo fra le nazionali di Samoa (le isole occidentali però, che sono uno Stato indipendente), quella del rugby, agli ultimi Mondiali battuta di un solo punto dall’Inghilterra nella fase a gironi, e che un match comunque l’ha portato a casa, contro il Cile. Un quindici che, sceso in campo, si esibisce in una haka.

Con l’approssimarsi del Mondiale, a Samoa sbarcò Thomas Rongen (interpretato da Michael Fassbender), coach americano di radici olandesi, cui era stato affidato il compito di allontanare la squadra locale dallo scomodo ruolo di simbolo degli improbabili; e farne una squadra, se possibile, normale. Il punto è che il film conferma quanto la sconfitta attiri. Non tutte le sconfitte, ma soprattutto quelle che si esprimono in modo dirompente, esagerato. Il crollo.

Siamo tutti più o meno tifosi, cerchiamo la vittoria ovunque e sempre, compreso quando c’è da scattare per primi al semaforo, appena si illumina il verde. Ma poi siamo irrefrenabilmente attratti da chi perde, soprattutto da chi si cimenta con pratiche che non gli appartengono, da chi viene addirittura umiliato guadagnandosi il patentino di grande protagonista dell’improbabilità. Da chi scivola dal piedistallo e si ritrova a terra.

Gli esempi di sconfitte-clamorose e sogni-impossibili si sprecano.

La Giamaica del bob

Cinematograficamente giova ricordare i bobbisti giamaicani di Cool Runnings, un film disneyano del 1993 che narrava della meno preparata (diciamo così) fra le formazioni che ai Giochi si lanciarono in un budello ghiacciato, a Calgary ’88, mentre Alberto Tomba irrompeva nel festival di Sanremo con la vittoriosa seconda manche del gigante. Ci entusiasmiamo perché Topolino smaschera Macchia Nera, ma la com-passione è tutta per Paperino che va da zio Paperone a chiedere soldi e si trova di fronte ogni giorno lo stesso cartello: ”Oggi non si fanno prestiti, domani sì”.

Di certo non stava correndo per la vittoria Gabriela Andersen-Schiess, la maratoneta svizzera che ai Giochi di Los Angeles, staccatissima dalle prime, entrò nel Coliseum completamente disidratata e impiegò cinque minuti per percorrere l’ultimo giro di pista barcollando, con la faccia distorta e l’incedere sghembo. Emula, 76 anni dopo, di Dorando Pietri, il maratoneta italiano che ai Giochi di Londra del 1908 arrivò nelle vicinanze del traguardo ma per superarlo fu sorretto e accompagnato da alcuni spettatori, e per questo privato della medaglia d’oro. Così come ci commossero le immagini di Eric Moussambani Malonga, nuotatore equatoguineano che ai Giochi di Sydney del 2000 faceva fatica a tenersi a galla in piscina, fece i 100 metri stile libero in un minuto e 52 secondi, più del doppio del tempo medio degli altri.

Ecco cosa ci piace di questi vincitori mancati o predestinati perdenti: il fatto che dentro la sconfitta germogli la speranza. Stavolta è andata male, hai perso 31-0 contro l’Australia? Si può provare a immaginare un futuro migliore. Se hai perso e sei a pezzi, puoi pensare che andrà meglio, forse, un giorno.

L’eterno secondo

Prendete il ciclista Raymond Poulidor, alter ego di Jacques Anquetil che era calcolatore, freddo, aristocratico. Lui, Poupou, era la Francia delle campagne e di coloro i quali le abitavano e le coltivavano: empatico e semplice. Nessun tentativo di misticizzare oltremisura la vita fuori dai grandi centri urbani: ma si sa che la terra di Francia è potente nel trasmettere le proprie caratteristiche in coloro che la abitano e la percorrono, come Gianni Mura ha raccontato in ogni singolo giorno di corsa. Anquetil di Tour ne vinse cinque, Poupou nemmeno uno. E non riuscì mai nemmeno a indossare la maglia gialla. Eppure, a distanza di anni, se di colpo ricomparisse per quelle stesse strade di Francia, Poupou sarebbe spinto da una passione immutata.

Del vincente Jacques, se ricomparisse pure lui, ci si inchinerebbe alla classe, alla potenza strategica, alla innata superiorità. Ma i cuori pulserebbero per Poupou. La prova? Quella passione si è trasferita sul nipote Mathieu van der Poel che poco ha in comune ciclisticamente parlando con il nonno, visto che vince tantissimo: ma, quando non è impegnato a sputare contro tifosi belgi che lo insultano (è successo pochi giorni fa a Hulst, al termine della settima gara di ciclocross vinta di fila in stagione: ora è a dieci su dieci), è accompagnato appena mette ruota nel suo Paese da un’onda emotiva non comune. La nomea di “eterno secondo” che Poupou si è portato addosso tutta la vita (pur avendo vinto parecchio pure lui) è come se fosse riscattata dal nipote che, vincendo, onora e celebra i limiti del nonno.

Sarà pur vero come scrisse Kipling e come è riportato all’ingresso del Centrale di Wimbledon che vittoria e sconfitta sono due impostori che vanno affrontati nello stesso modo; ma, come il film di Waititi (lui che si è cimentato, nell’universo Marvel, con una della più sconquassanti sconfitte: in Thor: Ragnarok ha raccontato il disfacimento di Asgard, la mitica città degli dèi) ci ricorda un’altra volta, guardiamo col sorriso a chi perde affrontando sfide impossibili (rischiando di apparire nel migliore dei casi avventato, ridicolo nel peggiore) perché chi perde è nostro compagno di cammino. E anche se poi magari tifiamo per qualcuno che desideriamo vinca siamo lo stesso a fianco di chi magari sbatte la faccia contro i propri limiti, quelli su cui Paolo Conte invitava la sua amata a poggiare la mano.

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