Sette anni e undici mesi di reclusione. È questa la richiesta della procura di Locri, avanzata dal pm Michele Permunian. Mimmo Lucano, il sindaco del modello Riace, deve essere condannato perché capo di una associazione a delinquere che lucrava sull’accoglienza e la vita dei migranti, per abuso d’ufficio, truffa, falsità ideologica, concussione, peculato. E poi per il rilascio di carte di identità ai migranti senza riscuotere i diritti di segreteria, per aver affidato la raccolta dei rifiuti ad una coop di migranti e persone svantaggiate e per aver favorito l’immigrazione di clandestini.

Uno tsunami di accuse già smontate da altri giudici (gip, Cassazione e Riesame), messo in crisi dal dibattimento processuale. Per il pm quello a Lucano non è un «processo politico avviato dalla Prefettura su input governativo». Questa è una «tesi complottista. Una narrazione smentita nel corso dell’istruttoria dibattimentale». C’è la testimonianza del superteste, un commerciante di Riace «stremato dalle richieste di Lucano» e costretto a firmare fatture false.

Ma nel corso del dibattimento, è emerso che il commerciante aveva inviato una serie di messaggi a Lucano, tanti di apprezzamento per la sua azione, molti al limite della minaccia («Vado dai carabinieri e ti denuncio»). E c’è, come altro caposaldo dell’accusa la relazione firmata dal viceprefetto Gullì, che evidenziava una serie di criticità nella gestione dei progetti di accoglienza. Il pm apprezza il funzionario, ma non fa altrettanto con un suo collega, il dottor Campolo, che invece redige una relazione di segno diverso e opposto. «Il dottor Campolo – dice Permunian – inspiegabilmente ha disatteso le direttive ricevute dal suo diretto superiore gerarchico, il prefetto Michele Di Bari, redigendo una relazione secondo criteri non tecnici».

Quella relazione fu giudicata dal Prefetto Di Bari, poi promosso responsabile del Dipartimento immigrazione del Viminale, «una favoletta». Quando Lucano e i suoi avvocati ne chiesero copia, la Prefettura si oppose. Fu necessario un ricorso alla Procura di Reggio Calabria per ottenerla. Per il pm tutto questo non conta e adombra un sospetto sul funzionario: «Campolo aveva uno stretto rapporto con Lucano».

L’ex sindaco di Riace era il dominus di un’associazione a delinquere. Voleva sempre più migranti e profughi per avere più finanziamenti pubblici e fare più assunzioni. Grazie a tutto ciò, «Lucano – è la tesi del pm – ha costruito il welfare dei riacesi» con i soldi dei migranti. L’utopia dell’integrazione e della trasformazione di un’emergenza in opportunità per i paesi calabresi in via di spopolamento, è tutta in quello che la procura bolla come «l’interesse politico di Lucano».

Quello politico assurge addirittura a “movente”. «Lucano è il decisore, colui che opera le assunzioni nelle associazioni, che fa lavorare i riacesi e tiene in piedi un sistema di welfare». Ha bisogno dei migranti, «non li può allontanare per una immagine pubblica che si è creato, e soprattutto perché deve tenere in piedi un sistema che fa lavorare tutti i riacesi. I quali stanno zitti».

Più di cento pagine, ore di requisitoria dell’accusa per dimostrare un tesi che è tutta “politica”: «L’incremento dei numero (dei migranti, ndr) è voluto e la ragione della continua disponibilità alla ricezione dei migranti è l’economia associata all’accoglienza». A nulla sono valse le dichiarazioni di Lucano che ha ricordato le pressioni dei prefetti durante l’emergenza Africa, e ad ogni sbarco di disperati al porto di Reggio Calabria. «Mi chiamavano San Lucano», ricorda l’ex sindaco, «ora mi processano».

La Procura insiste nel difendere il carattere autonomo e non politico dell’inchiesta. Prima del pubblico ministero Permunian, ha preso la parola il procuratore di Locri, Luigi D’Alessio. «Questo è un processo che ha avuto un enorme rilievo mediatico. Ma non è stato un processo a un ideale, o al nobile ideale dell’accoglienza. Non è mai stato nelle intenzioni della Procura quella di contrastare un principio fondamentale che è quello di accogliere le persone che sono in difficoltà. Quello che ha mosso questa indagine è la relazione prefettizia molto dettagliata».

Non è una inchiesta politica. «È una indagine del 2016 che ha attraversato diversi governi. Ne ho contati ben quattro di diversa estrazione. Nel corso di questi anni devo dire che mi è capitato di incontrare i massimi rappresentanti di questi governi, l’onorevole Renzi, l’onorevole Salvini. Mai in nessuna occasione è pervenuta al nostro ufficio alcuna pressione». La realtà scaturita dalle indagini «è sostanzialmente qualcosa di opposto a quello che è lo spirito dell’accoglienza. Una mala gestione che ha finito per rendere vere parti offese i migranti stessi».

Lucano si è arricchito nella gestione del modello Riace? L’accusa, nonostante testimonianze, relazioni, deposizioni degli ufficiali di polizia giudiziaria, risulta ancora indimostrata. Non c’è la “pistola fumante”. Però, dice il procuratore, «abbiamo registrato una sorta di appropriazione di quella che è stata la vasta diffusione di denaro pubblico, verso chi mirava non ad accogliere i migranti, ma ad un consenso ambientale per creare clientela e consenso elettorale».

Parole dure e richieste di condanna pesanti che hanno un obiettivo: demolire Domenico Lucano e il suo modello celebrato e studiato nel mondo. Con una inchiesta che presenta più di una anomalia. Dai giornalisti intercettati, insieme a tre magistrati, fino alla richiesta di acquisizione di una intervista nella quale Lucano annuncia la sua candidatura alle prossime regionali calabresi, fatta dal pm in una delle ultime udienze. Una inchiesta già in parte demolita da una serie di pronunciamenti. Del gip che nel 2018 respinge la richiesta di arresto di Lucano evidenziando «la vaghezza e la genericità del capo di imputazione», della Cassazione che annulla gli arresti domiciliari per l’ex sindaco sulla vicenda della raccolta dei rifiuti, perché non esistevano indizi di comportamenti fraudolenti da parte di Lucano. E poi ancora dalla severa pronuncia del Tribunale del riesame che respinge la seconda richiesta di arresto di Lucano.

Per i giudici «il quadro indiziario è inconsistente», c’è «l’assenza di riscontri alle conclusioni formulate dalla Procura, fondate su elementi congiunturali o presuntivi». Il «compendio indiziario a carico degli imputati – si legge ancora – è parzialmente contraddittorio e non univoco».

Il processo non è ancora concluso (la camera di consiglio si riunirà il 27 settembre), e la battaglia di Lucano continua. «Alcune accuse sono completamente inventate. Il profilo che hanno tratteggiato non corrisponde», dice l’ex sindaco. «Per me la politica è un ideale e questo fa paura. Io ho solo creduto in un ideale. Ogni passo che ho fatto ha avuto queste motivazioni, per il riscatto delle persone che arrivano a Riace. La Procura insiste che io ho avuto motivazioni politiche legate a candidature. Quello che non dice il pm è che io non mi sono mai candidato se non al Comune di Riace rifiutando proposte come quella al Parlamento europeo, alle politiche e alle regionali. All’inizio mi hanno accusato di aver fatto sparire milioni di euro, poi il teorema della Procura è cambiato perché il dibattimento ha dimostrato che non era vero e così hanno ripiegato su motivazioni politiche inesistenti. Vogliono ribaltare la realtà. Detto questo, ho sempre fiducia nella giustizia. Non è un caso che comincia tutto nel 2016 quando l’area progressista apre le porte alla criminalizzazione della solidarietà in Italia e in Europa. Dopo arriva Salvini e completa l’opera. Non è nemmeno un caso che oggi a Riace l’accoglienza ancora resiste. Senza fondi pubblici e tra mille difficolta. Questa è la risposta più forte. L’ultimo capitolo di questa storia incredibile si deve ancora scrivere».

Netta la dichiarazione degli avvocati di Mimmo Lucano, Andrea Daqua e Giuliano Pisapia. «Riteniamo che le conclusioni del pm non si commentano ma si ascoltano per poi replicare quando la difesa prenderà la parola. In ogni caso riteniamo che il dato emerso dall'istruttoria dibattimentale recepito dalla pubblica accusa diverga, e di molto, da quello che abbiamo recepito noi. Gli esempi sarebbero numerosi ma, in questa sede, basti considerare la testimonianza del Ruga ritenuta, ancora, attendibile dall'ufficio di procura nonostante quanto emerso in udienza nel corso della deposizione del teste. Non condividiamo, dunque, le argomentazioni e conclusioni della pubblica accusa che contesteremo sulla base di quanto emerso, anche documentalmente, nel corso del dibattimento».

© Riproduzione riservata