Nelle sale di uno dei musei più importanti della capitale va in scena, alla presenza di Giorgia Meloni, il vertice voluto dal Re di Giordania sulle minacce terroristiche nell’Africa occidentale. I sindacati denunciano: «I dipendenti sono stati convocati al Ministero per un corso di tre giorni sulla sicurezza nei musei». Una scusa per tenerli lontani dalla galleria e giustificarne la chiusura
Per due giorni la Galleria nazionale d’arte moderna di Roma smette di essere museo. Le sale, solitamente affollate da visitatori in coda per ammirare opere di autori che vanno da Hayez a Van Gogh, oggi e domani faranno da cornice ad un summit internazionale, il Processo di Aqaba, presieduto dal re di Giordania, Abdullah II. E mentre il museo si riempie di capi di stato e delegazioni straniere, le lavoratrici e i lavoratori vengono messi ai margini con una comunicazione che li invita a non presentarsi al lavoro in quei giorni senza spiegare il reale motivo della chiusura.
Il summit
Il Processo di Aqaba nasce nel 2015 da un’idea del re Abdullah II: creare un tavolo permanente tra governi, servizi di sicurezza e organismi internazionali per coordinare la lotta al terrorismo e all’estremismo violento.
Non un summit rituale, ma una rete informale che mette insieme intelligence, politica e apparati militari. Dopo tappe in Africa, Asia e nei Balcani, quest’anno l’incontro è arrivato in Italia, scelta come sede per la sessione dedicata all’Africa occidentale. Proprio per questo in prima fila accanto ad Abdullah II ci sarà il presidente nigeriano, Bola Ahmed Tinubu, per affrontare i problemi di un’area che rischia di soccombere sotto la pressione crescente di cellule jihadiste.
Sul tavolo del forum le minacce del Sahel, il legame tra terrorismo e traffici criminali, la pirateria nel Golfo di Guinea e l’uso dei social media per la propaganda estremista. Ma dietro le parole “cooperazione” e “stabilità”, il messaggio politico è chiaro: costruire nuove alleanze in una regione dove le presenze russe e cinesi sono in crescita, e dove l’Europa tenta di non perdere il controllo.
Così l’Italia si è offerta di ospitare il vertice e i lavori nella giornata del 15 ottobre si apriranno con un intervento della presidente del Consiglio, Giorgia Meloni.
La chiusura
Per provare ad assicurarsi questo ruolo di ponte tra i due continenti, l’Italia ha scelto di sacrificare un luogo simbolo della sua cultura pubblica in una città che offre decine, se non centinaia, di sale e uffici adatti a summit istituzionali.
La Galleria nazionale d’arte moderna, chiusa al pubblico per due giorni, è diventata così un fortino della diplomazia. «L’area è completamente blindata – spiega Lilith Zulli, Coordinatrice regionale di Fp Cgil Roma e Lazio – e all’interno, nonostante una vigilanza già alta, c’è un ingente schieramento di forze dell’ordine».
Una chiusura che arriva in gran segreto e i cui reali motivi sono stati nascosti anche ai lavoratori. Con una comunicazione di servizio inviata a tutto il personale l’8 ottobre, infatti, la direzione della Galleria ha comunicato ai propri dipendenti l’obbligo di seguire un corso di formazione con il tema «sicurezza nei musei e nelle gallerie» nella sede centrale del ministero della Cultura.
«Convocare tutti i dipendenti contemporaneamente per un corso di formazione – spiega Zulli – è già di per sé un’anomalia. Ma soprattutto, senza dirlo apertamente, stai comunicando che il museo chiude senza dare spiegazioni». Nelle comunicazioni ai dipendenti, infatti, non compaiono mai riferimenti a iniziative istituzionali e alle richieste di spiegazioni avanzate dai sindacati non sono pervenute risposte né dalla direttrice del museo, l’architetta Renata Cristina Mazzantini, né dal ministero.
E a chi ha chiesto di poter seguire i corsi dalla Galleria, è stato risposto con un secco no. «I lavoratori – prosegue Zulli – sono stati allontanati con una scusa senza poter dire nulla. Molti avevano chiesto di poter comunque andare in Galleria in quei giorni ma gli è stato risposto che non era possibile».
Il clima
Il trattamento riservato ai dipendenti della Galleria non sorprende i sindacati. «Non è la prima volta che si registra un atteggiamento quasi ostativo nei confronti dei lavoratori» spiega Zulli ricordando le polemiche che seguirono la presentazione di un libro di Italo Bocchino, tenutasi un anno fa sempre all’interno del museo.
«In quel caso la direttrice segnalò al ministero e alla questura i nomi degli oltre 40 dipendenti che firmarono, di loro iniziativa, una lettera in cui chiedevano conto di questa concessione per un evento evidentemente politico e propagandistico».
Di certo l’intera vicenda poteva essere gestita in modo diverso come avvenuto, ad esempio, durante la visita dei reali inglesi al Colosseo quando l’area venne ugualmente chiusa ma i dipendenti rimasero in servizio lavorando alla riuscita dell’iniziativa.
«Auspichiamo – sottolineano i sindacati in un comunicato – che tale comportamento non celi una mancanza di fiducia da parte della direttrice Mazzantini nei confronti del personale della Galleria». Un fatto che, se confermato, sarebbe «grave» e farebbe crollare il «rapporto costante e trasparente tra dirigenti e lavoratori su cui si deve basare il servizio pubblico».
Ancor più grave se si considera che si tratta a tutti gli effetti di dipendenti del ministero della Cultura, assunti dopo aver vinto un regolare concorso pubblico.
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