Dario Braga sul Sole 24 Ore lamenta la difficoltà di sfruttare le risorse messe a disposizione dal Pnrr per l’università. La costrizione di dover usare i fondi in poco tempo, il coinvolgimento di diverse burocrazie ministeriali e la necessità di usare nuove piattaforme informatiche comportano un extra-lavoro per docenti e ricercatori che dovrebbero occuparsi di produrre i risultati non di gestirne la burocrazia.

Senza indulgere in un facile populismo anti-burocratico, il pezzo di Braga cerca di formulare la denuncia in maniera più specifica, lamentandosi in particolare della macchinosità delle piattaforme predisposte. La questione è però più ampia e va valutata in maniera sistemica.

Da diversi decenni la pubblicistica mainstream centrista e di destra ha creato il mito di un’università sprecona e dominata dai baroni che spadroneggiano sul proprio reame.

Questa immagine, spesso ingigantita ad uso delle cronache scandalistiche, da un lato, ha nascosto il fatto inequivocabile del sottofinanziamento dell’università italiana rispetto ad altri paesi, e, dall’altro, è servita a portare avanti la campagna denigratoria contro i mitici “finanziamenti a pioggia”.

L’opinione pubblica italiana si è finalmente convinta che i finanziamenti a pioggia siano il male assoluto (nell’università così come in tanti altri ambiti) e si è buttata entusiasticamente nel mondo dei progetti. Con questo non intendo negare l’utilità dei progetti. Io stesso ne ho beneficiato a diversi livelli e credo abbiano dato una grande spinta al rinnovamento e all’internazionalizzazione dell’università italiana.

Ma la progettazione ha di fatto prosciugato i finanziamenti ordinari per attività di laboratorio, partecipazione a conferenze, acquisto di beni e servizi e per l’assunzione di collaboratori junior.

Così facendo si è limitata l’attività libera ordinaria, costringendo tutti a far dipendere la ricerca libera dai vincoli dei progetti. Ma questo è un danno per la vita universitaria. Infatti è importante che vi siano finanziamenti non sottoposti a oneri di rendicontazione perché il lavoro gestionale dei progetti è molto oneroso: richiede risorse (di tempo e personale specializzato). Non essendo disponibili, questo lavoro è solitamente scaricato sulle spalle del personale docente, già oberato da altre incombenze gestionali, didattiche, di ricerca e di rapporto con il mondo esterno all’università.

Questa affermazione non va vista come l’ennesima lamentela di un mondo – il personale docente universitario – che è relativamente privilegiato (se è assunto a tempo indeterminato) rispetto ad altre fasce della popolazione italiana. Ma è di certo in condizioni salariali e di strumentazione molto più svantaggiato rispetto ad altri paesi occidentali. E non intendo certo mettere in discussione l’idea generale che sta dietro.

In linea generale, è doveroso discriminare, cioè finanziare chi ha idee meritevoli e incentivare in tal senso. Il problema è di natura culturale e riguarda la proliferazione di questa logica nel modo di organizzare l’università.

Oltre all’onnipresenza dei progetti, va segnalata una tendenza parallela in ambito universitario: l’ossessione verso la rendicontazione e la tracciatura di ogni attività (nella didattica, nell’uso delle risorse, nel rapporto con gli studenti). Questa tendenza, di origine aziendalistica più che ministeriale, può essere giustificata in due modi. Da un lato, può essere vista come una garanzia di un uso efficiente delle risorse; dall’altro, può esprimere un’esigenza normativa di accountability.

Ma, sulla base delle considerazioni precedenti, è facile vedere che l’ossessione di rendicontazione anche al di fuori dei progetti ha poco a che fare con il contenimento dei costi e l’efficienza, visto che richiede lavoro extra da parte dei ricercatori o l’assunzione di ulteriore personale amministrativo dedicato.

Responsabilità

Rimane quindi il bisogno di accountability. Il rendere conto del proprio operato è un principio importante delle democrazie contemporanee. Non è detto però che il controllo amministrativo sia l’unico o il migliore modo, dato che queste procedure non vengono discusse pubblicamente ma usate soltanto per la valutazione da parte di agenzie statali che cercano di imporre una certa direzione all’università.

Invece, l’impressione condivisa è che l’esigenza di accountability sia motivata da una sfiducia malevola nella capacità di autogestirsi, come se i ricercatori, senza briglie amministrative, siano naturalmente portati a sprecare o non lavorare.

Questa tendenza non è solo italiana, ma coinvolge buona parte del mondo occidentale. In Italia si impone su organizzazioni fragili e sottodimensionate. Ma a questo problema non si risponde con gli slogan.

Bisogna diffidare di coloro che dicono «basta burocrazia» poiché sono gli stessi che richiedono più valutazione, più controllo sui costi, più rendicontazione, tutte attività che richiedono più burocrazia. E non si risolve nemmeno con un ulteriore giro di vite tecnocratico secondo cui, all’ipertrofia progettista e di tracciamento amministrativo, si deve rispondere con nuove piattaforme, nuovi obblighi amministrativi, nuove consulenze di società esterne.

Bisogna invece chiedersi se valga la pena imporre nuovi adempimenti, nuovi oneri e nuove procedure. Ogni cambiamento amministrativo ha un costo (monetario, di tempo e di altre attività da sacrificare) che andrebbe stimato prima di essere intrapreso.

Lungi dal comportare un incentivo all’immobilismo, una più sobria valutazione del senso di nuove iniziative (progettuali e gestionali) libererebbe risorse e tempo per la ricerca, la didattica e la produzione culturale.

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