La partita, certo, con il debutto contro la Scozia. Poi il contesto, con una Germania che attraverso alcune emittenti televisive, ARD e WDR, aveva preparato l’esordio con i sondaggi sulle quote bianche per la nazionale tedesca. Tra le domande, una chiedeva al pubblico se fosse rammaricato nel vedere la fascia da capitano al braccio di İlkay Gündoğan: il 17% aveva risposto di sì, percentuale pressoché sovrapponibile a quella di Alternative für Deutschland alle Europee. Perché c’è sempre un altro da contrapporre al concetto sovranista del “noi”.

Chi è Gaudino

Qualche decennio fa, gli altri erano gli italiani. Maurizio Gaudino, classe 1966, napoletano di Brühl, Baden-Württemberg, arrivò sino alla Nationalmannschaft, accompagnato spesso da sfottò e polemiche. «Che ci fai in una squadra tedesca? Sei italiano, là devi giocare», ricorda oggi lui che la Germania non l’ha mai lasciata, vive a Monaco di Baviera e lavora come procuratore. «Accadeva continuamente, i tifosi avversari mi prendevano di mira perché italiano. Eppure io ero l’unico dei miei fratelli nato in Germania, quando iniziai a giocare la mia famiglia si era trasferita qui già da tempo e a 16 anni avevo il passaporto tedesco. Ricordo le prese in giro, ma ricordo anche ciò che mi aveva insegnato mio padre: rispetta il luogo dove vivi, ma reagisci se qualcuno ti tratta male. Venivo dalla strada, ma come me facevano i bambini tedeschi: gli screzi e i litigi per quei motivi potevano capitare, ma poi finivano lì, però con questa etichetta ci sono cresciuto. Oggi, anche in Germania, è cambiata la società: allora gli immigrati erano gli italiani, poi sono arrivati i turchi, gli albanesi, i russi, gli africani. E il calcio finisce per essere strumentalizzato da tutti gli stupidi con idee razziste, gente a cui non vorrei nemmeno dare importanza, e da una certa politica i propri scopi».

Campione di Germania con lo Stoccarda nel 1992, finalista in Coppa Uefa sempre con i biancorossi contro il Napoli (era il 1989: rimane nel mito una sua intervista post-partita alla Rai, con una cadenza napoletana che non ha mai perso), con la maglia della nazionale divenne finalmente tedesco per davvero: «Avevo giocato anche con l’Under 21, poi, dopo l’esordio con la Germania, gli stessi che prima mi sfottevano, facevano il tifo per me. “Grande Gaudino, grazie Gaudino”. Ero accettato».

Anche Gündoğan è accettato, eccome, però quel sondaggio ha disvelato un razzismo latente e riporta a un’amichevole del novembre 2023 tra Germania e Turchia, quando il giocatore fu subissato di fischi da parte dei tifosi turchi e la Bild utilizzò l’accaduto come pretesto per titolare sul fallimento delle politiche di integrazione tedesche: «Per quanto riguarda i tedeschi e quel sondaggio sulla fascia di capitano, Gündoğan paga ancora per una foto che si fece scattare con Erdogan alcuni anni fa, in tanti non l’hanno digerita», ricorda Gaudino.

La foto di Özil e Gündoğan con Erdogan

Era il 2018, c’era anche Mesut Özil che si prese la sua dose di insulti, e Gündoğan donò al presidente turco una sua maglia del Manchester City con dedica e firma. La fascia era lontana, al tempo, ma «tra quella foto e il fatto che con la nazionale non è mai riuscito a incidere come nei club, lui è sempre sotto pressione». L’immagine fu funzionale per esacerbare i sentimenti peggiori di chi, già dalla legge sul ricongiungimento familiare del 1974, ha visto nell’aumento di dimensione della comunità turca un’invasione. Quando, nel 1980, il gruppo punk tedesco Daf scalò le classifiche con la sua Kebabträume («Neu-Izmir ist in der DDR», diceva: la nuova Smirne è nella Repubblica democratica), la provocazione iniziò a essere presa sul serio. E i problemi non li ha tanto Gündoğan: li ha chi è come lui, ma senza i suoi privilegi.

In fondo, è sempre la stessa storia, e si nutre di complessità e contraddizioni che Gaudino, figlio di migranti, conosce: «Dal punto di vista sociale chi ha di meno continua a essere ignorato e malvisto, è da sempre così. A me hanno insegnato che siamo tutti uguali, ad accettare persone e culture, per questo ad esempio non mi piacque quando, in Qatar, la nazionale tedesca protestò con le mani sulla bocca. Capisco la battaglia per i diritti, ma se scegli di essere ospite, devi rispettare chi ti ospita e farti rispettare, proprio come diceva mio padre».

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