Un elemento determinante per capire in quale direzione proceda l’epidemia di Covid-19, soprattutto nei paesi occidentali dove la copertura vaccinale è orma elevata, è la durata dell'immunità conferita dai vaccini. La domanda è ancora aperta dal punto di vista scientifico e i ricercatori hanno attaccato il problema da una parte guardando ai dati epidemiologici raccolti sul campo e dall’altra a quelli immunologici in laboratorio.

Il primo a suonare il campanello di allarme è stato Israele, che all’inizio di agosto ha stimato che l’efficacia del vaccino Pfizer-BioNTech nell’evitare le forme gravi della malattia negli over 65 che avevano ricevuto la seconda dose a gennaio e febbraio era scesa da 95 per cento a 60 per cento circa. Sulla scorta di questi dati, il governo israeliano ha avviato la campagna per la somministrazione del richiamo a tutta la popolazione, partendo dagli anziani.

A metà settembre l’Agenzia di salute pubblica britannica ha stimato che tra gli over 65 l’efficacia del vaccino Pfizer-BioNTech nell’evitare il ricovero scende dal 98 per cento al 91 per cento dopo circa 5 mesi dalla seconda dose. Più accentuato è il declino per AstraZeneca, che passa da 92 per cento a 77 per cento.

«Nonostante questa sia una diminuzione apparentemente contenuta, a livello di popolazione è probabile che si traduca in un numero significativo di persone che avranno bisogno di cure ospedaliere per Covid», ha dichiarato al Financial Times Penny Ward, farmacologa del King’s College di Londra.

Pfizer ha poi finanziato uno studio retrospettivo su circa 3,5 milioni di clienti di un grosso fornitore di servizi sanitari in California. L’efficacia verso l’infezione, sintomatica e asintomatica, passa da 88 per cento a 47 per cento dopo cinque mesi dalla seconda dose, ma quella verso il ricovero rimane stabile intorno all’88 per cento.

Lo studio ha anche provato a separare le infezioni con variante Delta da quelle con altre varianti, per capire se la diminuzione osservata potesse essere spiegata da una parziale capacità di Delta di eludere la risposta immunitaria indotta dal vaccino, senza però trovare differenze significative.

I dati sul’Italia

Copyright 2021 The Associated Press. All rights reserved.

Il 6 ottobre sono poi arrivati i primi dati italiani, pubblicati nel quarto rapporto sull’efficacia dei vaccini dell’Istituto Superiore di Sanità (ISS) e relativi a 29 milioni di vaccinati.

Nella popolazione generale l’efficacia dei vaccini rimane stabile intornia all’89 per cento nei sei mesi dopo la vaccinazione, così come quella verso il ricovero ordinario e in terapia intensiva (96 per cento) e la morte (99 per cento). Una flessione nella protezione dall’infezione si osserva solo nei gruppi con sistema immunitario debole (passa da 75 per cento a 52 per cento a 4-7 mesi dalla seconda dose) e nelle persone sopra gli 80 anni e i residenti delle RSA (resta comunque superiore all’80 per cento a 7 mesi dalla seconda dose).

L’analisi ha anche confrontato l’efficacia dei vaccini nella fase epidemica dominata dalla variante Alfa con quella dominata dalla variante Delta.

 I vaccini sembrano perdere forza contro Delta rispetto ad Alfa: l’efficacia nell’evitare l’infezione passa dall’84 per cento al 67 per cento. Tuttavia, la protezione verso la malattia grave resta molto elevata in entrambi i periodi, 92 per cento nella fase dominata da Alfa e 89 per cento in quella dominata da Delta.

«I dati dell’Istituto sono confortanti», commenta Stefania Salmaso, epidemiologa delle malattie infettive che ha diretto fino al 2015 il Centro nazionale di epidemiologia, sorveglianza e promozione della salute dell’ISS.

«La situazione epidemiologica in Europa e nel mondo è molto disomogenea. Le differenze tra i dati israeliani e quelli raccolti dagli sulle forme gravi potrebbero essere spiegate da diversi fattori. Israele ha avviato con grande velocità la sua campagna di vaccinazione, ma la copertura a un certo punto si è fermata al 70 per cento. In più, proprio sulla scorta del successo della campagna, prima dell’estate sono state rilassate le misure di distanziamento sociale e sugli spostamenti, anche internazionali».

Riguardo alla necessità di somministrare a tutta la popolazione un richiamo «per adesso non correrei. Non dimentichiamo che l’obiettivo delle campagne di vaccinazione era quello di diminuire la pressione sugli ospedali, non azzerare la trasmissione del virus. Per anziani e immunocompromessi è invece fondamentale per evitare la malattia grave.»

Il problema con gli anticorpi

Copyright 2021 The Associated Press. All rights reserved

Nel frattempo gli immunologi hanno analizzato il sangue dei guariti e dei vaccinati. Una conclusione comune sostanzialmente a tutti gli studi è che nei mesi successivi alla seconda dose la quantità di anticorpi circolanti nel sangue capaci di legarsi alla proteina spike del virus diminuisce, sia per il vaccino di AstraZeneca che per quelli a mRNA di Pfizer-BioNTech e Moderna.

Lo studio sul vaccino di Pfizer-BioNTech, condotto in Israele, ha analizzato anche l’andamento degli anticorpi neutralizzanti: dopo un’iniziale discesa il loro livello si stabilizza, a differenza di quello che accade per gli anticorpi anti-spike.

Questo suggerirebbe che gli anticorpi diminuiscono in termini di quantità ma diventano sempre più efficaci nel riconoscere l’antigene del virus e legarvisi, bloccando il suo ingresso nelle cellule dell’ospite. A dirigere questa attività di raffinazione sono le cellule B prodotte anch’esse in seguito alla vaccinazione.

Una ricerca, coordinata dall’immunologo Ali Ellebedy della Washington University School of Medicine, ha analizzato il liquido linfonodale di 14 persone che avevano ricevuto due dosi del vaccino Pfizer-BioNTech.

Nei linfonodi si svolgono una sorta di campi di addestramento delle cellule B per far sì che producano anticorpi sempre più efficienti. Ellebedy e i suoi collaboratori hanno visto che fino a sei mesi dalla seconda dose di Pfizer-BioNTech questi campi di addestramento sono attivi e producono cellule B sempre più specializzate.

Oltre ad anticorpi e cellule B, la risposta immunitaria contro a SARS-CoV-2 può contare anche sulle cellule T, che da una parte polarizzano l’attività delle B verso il virus nel momento di un nuovo incontro, e dall’altra eliminano le cellule già infettate per evitare che il virus si replichi ancora.

I ricercatori se ne sono accorti studiando il sangue delle persone guarite dall’infezione «nei casi clinici più lievi abbiamo osservato una risposta coordinata e tempestiva di anticorpi e cellule T» spiega Alba Grifoni, ricercatrice del La Jolla Institute for Immunology in California e autrice di uno dei primi studi sul ruolo delle cellule T nell’infezione con SARS-CoV-2 e aggiunge «nei casi più gravi, invece, abbiamo visto che una delle componenti è mancata».

In un altro studio hanno poi osservato come evolve la risposta immunitaria negli otto mesi successivi alla guarigione in circa 200 persone, constatando che seppure i livelli di anticorpi diretti alla proteina spike diminuiscono, così come le cellule B circolanti nel sangue, la maggioranza dei partecipanti aveva ancora una quantità rilevabile di cellule T.

«Ora stiamo ripetendo lo stesso tipo di indagine con persone vaccinate tenendo anche conto delle varianti del virus. Altri gruppi stanno analizzando invece la risposta immunitaria nei rarissimi casi di infezione post-vaccinale con decorso grave».

Il sistema immunitario non dimentica

Copyright 2021 The Associated Press. All rights reserved.

Nonostante la diminuzione del livello di anticorpi circolanti nel sangue, il sistema immunitario sembra sviluppare una risposta durevole e sempre più specializzata verso il virus. Eppure, gli studi di efficacia dei vaccini sul campo mostrano una flessione.

«Una variabile importante è il tempo di incubazione dell’infezione, ovvero il tempo che intercorre dal momento dell’incontro col virus a quando questo diventa rilevabile da un test diagnostico», commenta Salmaso.

Al momento dell’incontro col virus il sistema immunitario di una persona vaccinata deve chiamare a raccolta tutti i suoi agenti e indurre la produzione di anticorpi neutralizzanti oltre a sguinzagliare i linfociti T capaci di eliminare le cellule già infettate dal virus.

Se durante questo reclutamento il virus si replica molto velocemente può battere sul tempo il sistema immunitario e causare l'insorgenza di sintomi, anche se quasi sempre lievi.

La variante Delta ha peggiorato la situazione, perché è molto più veloce a replicarsi rispetto al ceppo originale, come ha suggerito una ricerca, pubblicata a luglio da un gruppo cinese.

Gli scienziati hanno osservato che il virus comincia a essere rilevabile nelle persone infettate con variante Delta quattro giorni dopo l'esposizione, rispetto a una media di sei giorni tra le persone infettate con il ceppo originale, suggerendo che Delta replichi molto più velocemente.

Non è facile dire se questo implichi che il declino di efficacia dei vaccini sia dovuto anche alla variante Delta.

Uno studio pubblicato la scorsa settimana su Nature e coordinato dall’immunologa di Yale Akiko Iwasaki, ha esposto i campioni di sangue di 40 operatori sanitari a 16 diverse varianti del SARS-CoV-2 inclusa la Delta osservando una risposta immunitaria robusta, soprattutto da parte delle cellule T.

«È improbabile che i casi di infezione post-vaccinale siano dovuti a un fallimento dei vaccini, piuttosto è probabile che derivino dalla natura estremamente infettiva della variante Delta, che può superare la difesa immunitaria» ha dichiarato Iwasaki.

© Riproduzione riservata