Come dopo un terremoto: è venuto giù tutto, restano solo macerie. O forse c’è ancora vita, lì sotto? Martin Monti è l’uomo che cammina sulle macerie tentando di avvertire segnali, anche deboli; una voce, anche flebile. È un brain scientist, un neuroscienziato di Ucla, Università della California, e le macerie sono i cervelli dei suoi pazienti: persone che a causa di un evento traumatico finiscono in stato vegetativo o di minima coscienza. Stati diversi, con una cosa in comune: chi ci si trova non è in grado di farsi sentire. Non può sussurrare “Ci sono”. Martin è l’uomo che cerca di capire se c’è ancora qualcuno, lì sotto. Lì dentro.

La voce arriva giovane da Los Angeles, l’accento milanese che ogni tanto si mischia a parole inglesi. Monti è una star del suo campo, i suoi studi su mente e disordini della coscienza finiscono su seguitissimi TED talk e in articoli del New Yorker, gli israeliani anni fa lo chiamarono per un consulto sull’ex premier Ariel Sharon, in stato vegetativo dopo emorragia cerebrale (morì nel 2014).

Il MontiLab

Alla Ucla è professore nei Dipartimenti di Psicologia e Neurochirurgia, il laboratorio di ricerca che dirige si chiama MontiLab. Ma dal telefono arriva soprattutto pazienza: ci tiene a farsi capire su un tema che intreccia scienza ed etica, libero arbitrio e responsabilità collettive, speranza e angoscia. Mi spiega così cos’è, secondo lui, la coscienza: «Quella cosa che va via quando ci si addormenta e che torna quando ci si risveglia o si sogna». Ma come ci si misura tutti i giorni con persone che sembrano sepolte in se stesse? «È difficile. Alcuni casi restano con me per anni - il paziente e la sua famiglia, perché queste condizioni cambiano la vita di tante persone».

Una precisazione, subito: «Non si tratta semplicemente di “esserci” o “non esserci”, consapevolezza totale contro totale incoscienza: ci sono moltissime sfumature intermedie. Uno spettro in cui i pazienti vivono probabilmente in un sogno vago con momenti di coscienza e altri di buio. I pazienti in stato di minima coscienza oscillano tra coscienza e non coscienza, quelli con sindrome locked-in invece sono coscienti ma “prigionieri” del loro corpo».

Per questo Monti ha dedicato anni a sviluppare strumenti che catturino segnali in persone con gravi cerebrolesioni. Sono vive, ma sono coscienti? Come si fa a chiederglielo? «Con piccoli gesti: gli muovo un oggetto davanti, in varie direzioni, e vedo se lo seguono con gli occhi. Chiedo di fare qualcosa, dico “Apri la bocca, Tira fuori la lingua, muovi un dito”: ma non tutti possono eseguire questi compiti. Bisogna cercare sempre nuovi modi di ascoltare».

Immaginare e conversare

Nel 2010, insieme al mentore di allora, escogita una soluzione rivoluzionaria: messi i pazienti all’interno di apparecchi per risonanze magnetiche, gli chiede di immaginare qualcosa. L’ipotesi è che anche una persona impossibilitata a muoversi può far capire se “c’è”. Non solo: può avere una “conversazione”. È la storia del Paziente 23, il primo con cui ci riesce. Semplificando al massimo: se immaginiamo di camminare dentro casa, nel nostro cervello si “accende” un’area, se immaginiamo di giocare a tennis un’altra. La risonanza le rivela in tempo reale. Al Paziente 23 fu spiegato che gli sarebbero state poste domande cui rispondere Sì o No. Sì, immaginando di giocare a tennis. No, immaginando di girare in casa.

Tuo padre si chiama Alexander? Tennis – sì. Si chiama Thomas? Casa – No. Hai fratelli? Tennis – Sì. Sorelle? Casa – No. Così via, sino alla domanda crudele e necessaria: Vuoi morire? Per la prima volta, il Paziente 23 non diede una risposta chiara.

Da allora la tecnica è stata perfino affinata, ma non basta. Non basta mai: perché c’è chi, per esempio, dopo il trauma diventa afasico e non capisce più il linguaggio, quindi non può rispondere a comandi. «Marcello Massimini, però, collega stimatissimo di Milano, ha inventato una tecnica che non chiede nulla al paziente: basta “bussare” al suo cervello (come faremmo con un muro per sapere se è pieno) iniettando un piccolo impulso elettromagnetico, poi ascoltarne l’eco elettrica.

Se il cervello è cosciente è ricca e complessa, perché parti diverse del cervello si parlano». Qui arriva quella che al profano di scienza appare quasi una formula magica, il numero che fa la differenza tra “esserci” e “non esserci”: 0,31. Un indice di complessità cerebrale (Perturbational Complexity Index). «In una persona cosciente questo indice non è mai al di sotto di 0,31, nelle persone in sonno profondo o anestesia totale - non coscienti - mai superiore».

Cercare la coscienza

La coscienza - come individuarla, come aiutare i pazienti a recuperarla - è l’ossessione scientifica di Martin Monti. Perché alcuni pazienti tornano coscienti, altri no? È nato da qui il suo uso degli ultrasuoni focalizzati a bassa intensità come trattamento per recuperarla: onde sonore in grado di “iniettare” energia al cervello. «Ero arrivato da qualche anno alla Ucla, studiavamo due piccole strutture dentro il cervello, i talami. Un mio collega stava sviluppando questa tecnologia degli ultrasuoni focalizzati, con cui si crea una zona di alta pressione e si possono stimolare parti del cervello senza ricorrere a chirurgia.

Ho capito subito come avrei potuto utilizzarla per i miei pazienti e abbiamo lanciato il primissimo trial clinico nel mondo. Ha avuto risultati davvero incoraggianti. Uno di quei pazienti “che porto con me” era in disordine della coscienza da almeno tre anni. Gli facemmo la prima sessione di stimolazione». Una settimana dopo la moglie prega Monti, “Gliene faccia di più”.

La sera prima aveva notato che riusciva a muovere su e giù gli occhi e aveva deciso di mostrargli foto di familiari. Gli aveva dato istruzioni: guarda in alto se vuoi dire Sì, in basso se vuoi dire No. «È la prima conversazione che ho avuto con mio marito dai tempi dell’incidente, mi disse. Per queste persone e per le loro famiglie la risposta anche solo a una domanda è già moltissimo».

Ma non ci sono rischi nel “risvegliare” le persone? Di dargli speranze illusorie? O consapevolezza di uno stato di cui non erano consci? «Ci penso tutto il tempo. È possibile che un paziente si trovi in uno stato nebbioso in cui non capisce e poi – grazie a questi interventi- recuperi qualche facoltà e si renda conto della propria condizione.

Però noi vediamo che le persone trovano, dopo, maggior capacità di risposte motorie. Al MontiLab abbiamo trattato ormai una quarantina di pazienti e visto che - almeno nel breve periodo - diventano più capaci di rispondere a comandi, esprimersi. Gli ridiamo qualche capacità di comunicare col mondo esterno».

Come procedere

Sorgono altre domande, inevitabilmente. Ogni passo avanti scientifico suscita una questione etica. Se possiamo chiedere a una persona “se c’è”, dobbiamo anche chiedergli cosa vuole fare di sé? Bisogna riconoscergli delle facoltà legali? «Rispondere esula dalle mie competenze. Posso però dire che secondo me esiste la possibilità di usare la risonanza magnetica o altri strumenti e test per stabilire quanta capacità cognitiva sia rimasta in una persona e quindi quanti diritti gli vadano riconosciuti. Oggi sappiamo collegare il cervello di una persona a un computer e metterlo in grado di scrivere una mail, muovere un cursore, dunque anche dirci Sì o NO. Potremmo così trovarci nella situazione in cui facciamo test, vediamo che la persona “c’è” - capisce la domanda e sa darci una risposta - e può scrivere su un computer “Vorrei andarmene”. Teniamo conto che in molti Paesi se una persona è cosciente perde il diritto all’eutanasia –riservata a pazienti che non lo sono. Ci sono grandi contraddizioni. Chi ha il diritto di rispondere alla domanda, “Vale, questa vita?”. È estremamente personale».

Ed estremamente difficile, dice Monti, immaginare da sani cosa davvero proveremmo se ci trovassimo in quelle condizioni. Ricorda uno studio fatto da studiosi belgi: a molte persone chiesero, Se immagini che Zero sia il giorno peggiore della tua vita e 10 il migliore, come diresti che ti senti oggi? «La maggior parte delle persone rispose 7 (tranne i francesi, che dissero 6). Ma la stessa domanda fu fatta a pazienti in sindrome locked-in (perfettamente coscienti ma intrappolati in un corpo immobile) e la risposta fu la stessa dei sani: 7. La mente umana può adattarsi a tutto».

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