Tempo fa ho sentito Goffredo Bettini raccontare di quando Gianni Borgna, vecchio amico e cultore di musica popolare, scorrendo i titoli di una ricca libreria se ne uscì spiegandogli che per capire l’Italia c’era una sola cosa da fare: guardare il Festival di Sanremo. Mi sono ricordato la battuta dopo la scoperta di un saggio illuminante (a volte lo sono) scritto da Gianluigi Simonetti, docente di letteratura italiana contemporanea all’Università di Losanna. Caccia allo Strega. Anatomia di un premio letterario (nottetempo 2023) è lettura imperdibile per chi voglia addentrarsi nelle more di competizioni – tali sono Strega, Campiello e un’altra serie di tributi meno noti – dietro le quali si cela molto più che una contesa editoriale. La si può dire anche così, quanto attiene alla critica letteraria e a fenomeni culturali di larga diffusione – vincere lo Strega implica una quantità di benefici commerciali e popolarità – si può applicare per contagio a diverse filiere del lavoro intellettuale.

I re delle tendenze

Ma andiamo con ordine. La premessa è una riduzione sensibile dello spazio dedicato alla critica e al dibattito letterario. Col tempo molto di quella tradizione è venuta spettacolarizzandosi adottando persino toni infantili. Esemplare il ricorso a stelline di gradimento per commentare contenuto, stile o le copertine delle novità. Ciò che in passato aveva il tratto dell’approfondimento o della recensione classica ha teso a farsi “esperienza di lettura”, in questo accostandosi a una riflessione simile sviluppata anni addietro da Claudio Giunta.

Potremmo tradurlo in questo modo, volendo mirare lo scrittore al massimo di esposizione e plauso ha messo in conto di modificare (e mortificare?) la sua stessa natura occupando spazi e performance sempre più compatibili col grande pubblico e comunque tali da collocarlo in sintonia con le tendenze in atto.

Detto ciò in che misura il mondo dei premi impatta l’evoluzione di generi e consumi? Qui, un primo aneddoto aiuta a orientarsi, è una citazione del Premio Goncourt, edizione 1932. Tra i titoli in concorso Viaggio al termine della notte di Céline.

Alla vigilia della salita al potere di Hitler quel capolavoro sarebbe finito secondo dietro un volume disperso nella memoria anche se allora sponsorizzato da Gallimard, casa di gran lunga più potente dell’altro editore Denoël a conferma di qualche continuità nei poteri dell’industria culturale. Tanto per dire, sarà Pier Paolo Pasolini a denunciare malcostumi irritanti al punto da ritirarsi dallo Strega del 1968 – quante cose in quell’anno – con argomenti replicabili a mezzo secolo di distanza.

E arriviamo al punto: «Di solito i premi non vanno agli scrittori in assoluto più bravi, ma – nell’ipotesi più favorevole – a coloro che meglio intercettano, per motivi diversi, una tendenza o sensibilità del proprio tempo: il gusto della giuria, degli editori, del pubblico in quel momento storico».

Così Simonetti sulla scia di autori, romanzi, classifiche del premio principe tra i nostri, sorta di tracciato per un’immagine della cultura prevalente. Risolta la cornice il libro in punta di critica seziona sei romanzi dal solidissimo impatto e successo nell’ultimo ventennio. I primi cinque saliti sul podio più alto dello Strega (e si perdoni la metafora sportiva), l’ultimo – Le Assaggiatrici di Rosella Postorino – vincitrice del Campiello nel 2018. Non ho titolo per entrare nel merito dell’analisi se non a marcare la perizia con cui il critico si muove tra l’alto e il basso (ammesso si possano ancora usare le due categorie, del che dubito), tra splendide prove narrative del passato – Mistero napoletano di Ermanno Rea, il Lessico famigliare di Natalia Ginzburg o Libera nos a malo, meraviglia di Meneghello – e le forme in buona misura originali e pertinenti al tempo nostro dei successi degli ultimi due decenni.

Emotività generica

La successione parte da inizio secolo, anno 2000, quando il primato della cinquina tocca a Via Gemito di Domenico Starnone. Seguiranno Non ti muovere di Margaret Mazzantini (2001), La solitudine dei numeri primi di Paolo Giordano (2008), Resistere non serve a niente di Walter Siti (2012), fino al celebrato M. Il figlio del secolo di Antonio Scurati (2018).

Simonetti tratteggia elementi stilistici, espressioni idiomatiche, non perdona cliché talvolta banali e addirittura “volgari”. Nutre scarsa indulgenza verso stereotipi impotenti nel profilare la psicologia dei protagonisti. Giudizi condivisibili o meno che tendono a un nodo ultimo, «a chi scrive interessa soprattutto spandere emotività generica, concentrarsi sui picchi narrativi e accordarsi allo spirito del tempo».

Per chiarezza maggiore, «si sollecita il lettore sul piano culturale senza metterlo alla prova chiedendogli decifrazioni troppo ardite, ma facendogli respirare a buon mercato il profumo della grande Storia; lo si mobilita sul piano morale e politico, sottoponendolo al brivido dell’arte impegnata; lo si mette in condizione di sentirsi un bravo cittadino, nella riprovazione del cattivo (che è il più forte) e nella solidarietà verso il buono (che è il più debole)».

La sintesi? Saremmo di fronte a una letteratura sensibile soprattutto a non mettersi in contrasto col sentimento prevalente nella contemporaneità. Lo stesso dedicarsi, negli esempi citati è accaduto più volte, al passato storico prefigura un richiamo ai conflitti attuali contaminando la lingua di inserti estrapolati dal presente.

Si può parlare di una letteratura “pedagogica”? L’interrogativo non è infondato e la risposta incoraggia a camminare su quel sentiero. «È come se la grande tradizione del romanzo moderno, fondata sulla separazione tra arte e morale, fosse stata cancellata, o meglio rimossa per tornare circolarmente a uno stadio anteriore, premoderno: con il politicamente corretto al posto della morale cristiana». Una sorta di «testimonianza civile…per convincere e convincersi di essere nel giusto».

Tradotto, i premi letterari all’origine di una letteratura al tempo stesso “commerciale e impegnata” in grado di soddisfare l’industria culturale e una qualche “falsa coscienza”.

Effetti collaterali

E siamo al dunque. Come esistono i film “da festival”, così esistono i libri da “premio”. Il punto è che tutto ciò riflette una modalità particolare di formazione del senso comune che pare scollinare il solo gusto letterario.

Per darne conto valga il commento di Simonetti a una tra le più recenti cinquine dello Strega: «Sembra un collage di spunti alla moda, assemblato sperando che la quantità surroghi la qualità. Tutto negativamente molto saturo, quindi; e invece è tutto molto spoglio e scarno sul piano della scrittura, che è un ottimo esempio dell’italiano scritto ma non letterario che sta colonizzando la nostra narrativa».

Allora per chiudere poniamoci la domanda: «Quell’italiano scritto ma non letterario» sta colonizzando solamente la nostra narrativa o una sottomissione analoga investe il discorso pubblico nelle sue varie anime e dunque il crearsi dell’opinione diffusa, del terribile senso comune, limitando la complessità quando si tratti di dare forma ai conflitti sociali del nostro tempo?

Il gioco conclusivo di Simonetti abbozza le caratteristiche di un libro destinato a vincere le prossime edizioni del premio, lo fa tirando i fili delle analisi sparse. Sul piano della pura provocazione esiste modo di compiere un’operazione simile proiettandola sull’informazione tout court, sul modo di resocontare i fatti e la realtà? In altre parole, nelle pieghe di culture politiche e partigiane sempre più schiacciate dentro la quotidianità, quali forze e fenomeni hanno finito con l’imporre la propria lettura di quella scena pubblica – di quel discorso pubblico – in passato occupata da altre agenzie di formazione e costruzione del sapere, scuola, famiglie, parrocchie, sezioni di partito, fino alle recensioni o stroncature di impianto tradizionale?

Quanto c’è stato di prevedibile nelle forme, anche linguistiche, che una dialettica impoverita ha assunto nelle nostre esistenze?

Ci dice Simonetti in questo suo regalo prezioso che i vent’anni ultimi hanno alimentato molta emotività dentro lo schema binario di ragioni e torti intesi come “assoluti” della storia. Forse è tempo che la cultura nel suo insieme – giornali, linguaggi, social, fondazioni, imprese, partiti e sindacati – elabori la medesima riflessione per rinavigare i tanti affluenti della complessità, e problematicità, di un mondo che non merita d’essere ridotto a formule, arruolamenti, scomuniche. Vasto programma, si capisce. Ma sarebbe una ragione in più per provarci.

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