Su Domani arriva il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Dopo la serie sull’omicidio di Mario Francese, si continua con la narrazione del patto tra Cosa Nostra e i colletti bianchi.

Devo premettere che non ho mai avuto una predilezione professionale per il concorso esterno in associazione mafiosa. So bene che si tratta di una fattispecie di reato difficile da dimostrare e sono pure consapevole di ciò che provoca questa accusa in chi – a torto o a ragione – si sente di appartenere a un mondo distante dalla realtà mafiosa. E siccome ritengo che i processi vanno portati avanti con convinzione e vanno vinti, nella mia vita professionale ho contestato questo reato solo in presenza di chiare evidenze e buone chances di ottenere la condanna. Immagino che chi mi ha visto all’opera si stupirà nel leggere ciò che sto affermando, e anche nell’apprendere che – al di là dell’apparente sicurezza che dimostravo – questi procedimenti mi hanno generato non poche preoccupazioni.

Nei primi anni Novanta, quando per la prima volta si fece ricorso massiccio ai collaboratori di Giustizia, non era ancora abbastanza chiara la “misura” della partecipazione esterna ai reati di mafia. Eravamo a volte chiamati a valutare le dichiarazioni di alcuni ex mafiosi che iniziavano ad accusare politici per i quali avevano votato e ai quali si erano poi rivolti per ottenere favori.

In buona parte dei casi erano rapporti clientelari di tipo individuale, a volte neppure di natura illecita, e spesso non c’era alcun rapporto con l’organizzazione. Epperò i dichiaranti – convinti di potere elevare il livello della collaborazione – insistevano nel dar conto di ogni possibile contatto o rapporto con politici e dunque occorreva approfondire le indagini. Iscrivemmo molti uomini pubblici nel registro degli indagati, ma per un numero davvero minimo di essi si arrivava poi a esercitare l’azione penale.

Quelli “a disposizione”

Ricordo il caso dell’esponente di un partito di maggioranza che ben quattro collaboratori chiamavano in causa sostenendo che “era amico nostro”. Se chiedevamo loro in che senso lo fosse, rispetto all’associazione criminale, non davano risposte convincenti. Continuavano a dire che era vicino a loro, che lo ritenevano “a disposizione”. E quando andavamo più a fondo nelle domande per sapere cosa avesse fatto, raccontavano storie poco rilevanti, come ad esempio il fatto che si era interessato una notte per fare arrivare la guardia medica a casa della nonna che stava male. Era chiaro che il procedimento andava verso l’archiviazione. Prima di chiudere, decisi comunque di interrogare questo esponente politico anche per capire meglio di chi si trattasse. Quando lo vidi mi diede l’impressione di una persona disponibile che si occupava degli abitanti di un quartiere popolare, forse un po’ sempliciotto, ma non certo uno a disposizione di una cosca per favorirla nei reati. Mancando evidenze probatorie non ebbi alcuna esitazione nel chiedere al GIP di archiviare. Qualche tempo dopo, una domenica, mentre mi trovavo con la mia famiglia seduto al tavolo di in un ristorante mi venne incontro una giovane donna. Non la vedevo da tempo ma ricordai benissimo che frequentava lo stesso oratorio religioso dove da ragazzo facevo volontariato. Mi venne a salutare chiedendomi come stavo e poi tornò al tavolo dove era a pranzo con la sua famiglia. A quel tavolo era seduto quel politico, e capii che era suo padre. Si alzò anche lui e venne a darmi la mano. Io ricambiai il saluto con un po’ di imbarazzo e sorridendo alla ragazzina mi venne da dirgli: «Complimenti…» perché l’avevo conosciuta fin da piccolina così impegnata nella vita religiosa e sociale. Sorrise anche lui, ma poi si voltò subito per rientrare al suo tavolo e mi accorsi che una lacrima gli aveva rigato il volto. Evidentemente aveva associato la considerazione che avevo per la figlia con l’umiliazione che aveva provato nel doversi giustificare con me per la propria condotta, che pure non era censurabile.

Da usare con cautela

Questo per dire che c’è una dimensione di umanità dietro ogni storia giudiziaria e ci sono procedimenti che anche se iniziano per poi chiudersi subito, toccano a fondo la dignità delle persone. Dunque la cautela è sempre indispensabile. Poi esistono anche situazioni opposte, in cui le responsabilità dei colletti bianchi rispetto al fenomeno della mafia sono molto gravi; e altre ancora in cui le colpe vanno oltre gli stretti limiti del diritto penale e le possibili assoluzioni giudiziarie.

Come abbiamo visto, i fatti raccontati nei processi contengono molti aspetti rilevanti sotto il profilo sociale ed economico da cui bisognerebbe partire per trovare un modo migliore di curare gli interessi di un popolo e di un territorio. Invece le storie spesso annegano nella sentenza penale. Come se andassimo a fare le analisi solo per controllare se ci sono i marcatori tumorali o i presupposti per una malattia grave, senza curarci del colesterolo, della glicemia e degli altri parametri che ci consentono di vivere in buona salute.

Testi tratti dal libro "Cosa Nostra S.p.a., di Sebastiano Ardita

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