Quando muore un boss che ha segnato la storia, e non solo quella mafiosa, il rischio è la mitizzazione. Nel caso di Raffaele Cutolo, stroncato dalle complicazioni di una polmonite la sera di mercoledì nel centro clinico del carcere di Parma, gli ingredienti per trasformare il racconto di una vita criminale in una storia epica, ci sono tutti. Cutolo e il suo cappotto di cammello ai maxi-processi. Cutolo e le canzoni, i libri, gli spezzoni del film di Peppuccio Tornatore su YouTube, con un ammaliante Ben Gazzarra, che ragazzi e adulti si passano e condividono. Cutolo e la mitologia del boss che “si è pentito solo davanti a Dio”. Non è così, non è giusto, soprattutto in questi tempi di memorie labili, dimenticanze colpevoli, e riscritture della storia. Raffaele Cutolo fu il capo di una potente organizzazione criminale. La Nuova camorra organizzata, il suo delirio, aveva obiettivi ambiziosi: dominare il territorio campano in quegli anni di fuoco che furono gli anni Ottanta del secolo scorso, accumulare ricchezze e trasformare la camorra in una spa, trattare alla pari con il potere, all’epoca tutto segnato dallo scudo crociato della Democrazia cristiana. Chi in quegli anni si oppose allo strapotere cutoliano, venne ucciso, ferito, attaccato dalla camorra. Delegittimato dalla politica. Mimmo Beneventano, medico, poeta e consigliere comunale Pci di Ottaviano, fu ucciso il 7 novembre 1980. Insieme al suo compagno di partito Raffaele La Pietra, ferito gravemente la sera del 20 maggio 1981, si opponeva a progetti di speculazione edilizia nel comune di Ottaviano. Marcello Torre, sindaco democristiano di Pagani, ucciso l’11 dicembre 1980 perché ritenuto un ostacolo per gli interessi delle imprese camorristiche, Giuseppe Salvia, direttore del carcere di Poggioreale, reo di aver offeso Cutolo perquisendolo, ammazzato il 14 aprile 1981, Antonio Ammaturo, capo della Squadra Mobile di Napoli, eliminato insieme all’agente Pasquale Paola perché stava indagando sui rapporti tra cutoliani, servizi segreti e brigatisti rossi per la liberazione dell’assessore regionale Ciro Cirillo.

Il capo spietato

Basta questo per capire chi fu Cutolo (altro che don Raffaé e il caffè con la macchinetta che compagno di cella ha dato a mammà), il capo spietato di una potente organizzazione criminale, dove l’omicidio, la strage, erano considerati strumenti di esercizio del potere. Nel decennio 1981-1990 (anni di guerre tra i cutoliani e i “cartelli” nemici) in Campania si registrano 2621 omicidi, il 21,6 per cento di quelli commessi a livello nazionale. «Oggi – si legge nella relazione sulla camorra della Commissione parlamentare antimafia del 1993, presieduta da Luciano Violante – le organizzazioni camorristiche, con circa 111 clan e oltre 6.700 affiliati, rappresentano, in una regione che ha 549 comuni e 5.731.426 abitanti, una vera e propria confederazione per il governo criminale del territorio con decisive capacità di condizionamento dell’economia, delle istituzioni, della politica, della vita quotidiana dei cittadini».

Quando Raffaele Cutolo irrompe sulla scena criminale campana, la camorra è già fortissima, ma sottovalutata dalle istituzioni italiane. Contrabbando di sigarette, traffico di droga, controllo degli appalti e dei mercati agricoli, sono il core business dei boss. Risibile la risposta dello Stato, come nota la relazione Violante. «Una sentenza del Tribunale di Napoli del 1981, spiegava che le misure di prevenzione contro la mafia (sequestro dei beni, carcere duro, ecc..., ndr) non potevano essere applicate alla camorra».

In questo contesto, nasce il progetto cutoliano di una confederazione camorristica riunita sotto la sigla Nuova camorra organizzata. Dal carcere Cutolo comincia a costruire il suo personaggio. Pubblica un libro di poesie, come un feudatario d’altri tempi, acquista per pochi spiccioli il castello mediceo di Ottaviano. Trecentosessantacinque stanze, una per ogni giorno dell’anno. Ma questo è il folklore, l’idea che il boss ha in testa è quella di costruire finalmente la camorra spa. A due fidatissimi, Alfonso Rosanova, la mente finanziaria della Nco, e Vincenzo Casillo, ‘o Nirone, la mente “politica”, il compito di realizzare gli obiettivi.

Ed è Casillo l’uomo chiave dell’affaire Cirillo. Il momento della massima ascesa di Cutolo, ma anche l’inizio del suo declino. Ciro Cirillo, uomo di fiducia del potente democristiano Antonio Gava, è assessore regionale all’urbanistica, e presidente del Comitato per la ricostruzione. Sul tavolo ci sono 64mila miliardi di vecchie lire da spartire, Cutolo vuole la sua parte, le Brigate Rosse stanno costruendo “il fronte Sud”. Ciro Cirillo è «un personaggio – si legge in un rapporto di polizia – realmente discusso per un modo quanto meno spregiudicato di gestire la cosa pubblica».

Le Br lo sequestrano il 27 aprile 1981, lasciando sul terreno due morti e un ferito. Quattro mesi dopo Cirillo viene liberato (il 24 luglio). «Non dopo un’efficace opera di intelligence, né dopo una brillante operazione di polizia… Ma dopo trattative condotte da funzionari dello stato e uomini politici con camorristi e brigatisti».

Alti funzionari dei servizi segreti dell’epoca, non le solite e rassicuranti schegge deviate o impazzite, ebbero l’ordine di trattare con Cutolo perché intervenisse sui brigatisti detenuti per la liberazione dell’esponente democristiano. E lo eseguirono. Vincenzo Casillo, da latitante, entrava e usciva dal carcere di Ascoli Piceno per incontrare il suo capo. Aveva in tasca un tesserino del Sismi, il servizio segreto estero. Alti esponenti della Democrazia Cristiana sollecitarono le trattative. Quello che appena tre anni prima la Dc non fece per Aldo Moro, fece per un oscuro ma potente esponente politico di provincia. I misteri del caso Cirillo sono tutti dentro sentenze e inchieste delle commissioni parlamentari.

Nessuno dei protagonisti di quella trattativa ha mai voluto raccontare tutta la verità. Nel corso degli anni, Cutolo ha solo lanciato messaggi. «Potevo salvare Moro, mi hanno fermato». «Cirillo dice di non conoscermi? Certo che ha una bella faccia tosta».

Ciro Cirillo, morto quattro anni fa, ha rassicurato tutti sulla sua fedeltà e sul suo silenzio, ma con un avvertimento affidato in una intervista di 11 anni fa alla penna di Giuseppe D’Avanzo. «La verità sul mio sequestro la tengo per me. Ho scritto tutto in una quarantina di pagine che ho consegnato al notaio. Dopo la mia morte si vedrà».

Quelle pagine non sono mai state rese pubbliche. Non si sa neppure se esistano davvero.

I rapporti con le Br

Esisteva il dossier sulla trattativa scritto dal capo della Mobile di Napoli Antonio Ammaturo. Stava indagando su quella sporca faccenda, era “antipatico” a Cutolo (per i blitz nella sua casa di Ottaviano e perché un giorno lo definì «un povero buffone»), odiato dalle Brigate rosse. «Ho scoperto cose che faranno tremare l’Italia. Ho mandato un dossier a Roma», confidò il commissario in una telefonata al fratello Grazio.

Il 15 luglio 1982 venne ucciso da un commando Br. I brigatisti feriti ricevettero cure e appoggi logistici dalla camorra. Nessuno di loro ha mai voluto parlare della trattativa per la liberazione di Cirillo. Neppure dell’uso dei soldi del riscatto, 2 miliardi e mezzo, e dell’elenco di magistrati, poliziotti e altri “obiettivi” da eliminare fornito dalla camorra ai terroristi. Quel dossier spedito dal commissario Ammaturo, a Roma non arrivò mai. Il fratello Grazio, qualche anno dopo, morì in un incidente d’auto in Tunisia. Il quadro delle complicità fu ricostruito dall’allora giudice istruttore Carlo Alemi in una istruttoria di rinvio a giudizio di 1600 pagine. Contro di lui si mossero le corazzate del potere. Era il 3 agosto 1988, quando il Parlamento si riunì per discutere la richiesta di dimissioni di Antonio Gava da ministro dell’Interno. Il presidente del Consiglio dell’epoca, Ciriaco De Mita, definì Alemi «un giudice che si è posto al di fuori del circuito costituzionale». Antonio Gava era seduto sui banchi del governo. Sorridente.

Un boss

Muore Raffaele Cutolo che in vita fu un ingranaggio di quel complesso potere italiano che mette insieme criminalità, Stato, politica e interessi economici. Porta con sé i segreti di un pezzo della storia che segnano ancora pesantemente il presente dell’Italia. Lui era un boss e non aveva l’obbligo morale di parlare. I personaggi politici ancora in vita, gli alti funzionari che sanno come andarono le cose, potrebbero dire la verità. Dimostrare di essere, almeno una volta nella vita, uomini delle istituzioni.

 

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