Fa sempre scandalo la giustizia che non fa giustizia. I processi lenti, i colpevoli che se la cavano fra cavilli che esorcizzano i fatti o gli innocenti che restano insopportabilmente sospesi in dibattimenti eterni. Ma non è sempre l’infernale macchina giudiziaria italiana che ingoia onore o vergogne. A volte basta un tocco personale, basta non vedere a un palmo dal proprio naso. Voglio farvi l’esempio di un importante processo che si sta celebrando in Sicilia. E il titolo dell’articolo che sto scrivendo potrebbe essere questo: “Come s’ammazza un processo”.

Le frequentazioni

Ma andiamo per ordine e spieghiamo di cosa stiamo parlando. In questi giorni qualcuno ha attaccato l’ex presidente del Senato Renato Schifani, candidato a governatore dell’isola nonostante le sue vecchie e maleodoranti frequentazioni palermitane quando esercitava la professione di avvocato. E, soprattutto, l’ha attaccato perché è attualmente a giudizio a Caltanissetta per associazione a delinquere e rivelazioni di segreto d’ufficio (era in mezzo a una cordata di galantuomini delle istituzioni che spiava le indagini dei magistrati), incastrato nel cosiddetto “sistema Montante”, l’ex vicepresidente di Confindustria che per molti anni è stato a capo di una centrale di affari e di ricatti.

Per come stanno le cose è il caso di chiarire agli avversari del senatore Schifani (e nel frattempo rassicurare il diretto interessato) che lui non verrà mai condannato per quelle accuse. Può stare sereno: in quel processo ha già garantita fin da ora la prescrizione. Lui e tutti gli altri imputati: l’ex direttore dei servizi segreti Arturo Esposito; l’ex governatore della Sicilia Rosario Crocetta; il prefetto Arturo De Felice che ha guidato la Direzione investigativa antimafia dal 2012 al 2014; il ”re” delle discariche Giuseppe Catanzaro e il “re” dei supermercati Massimo Romano, l’ex capo della security di Confindustria Diego Di Simone, qualche altro pezzo grosso dell’intelligence; assessori regionali e avventurieri di varia specie.

Un dibattimento mostro

È sufficiente fare un po’ di conti e raccontare tecnicamente cosa è diventato il processo Montante. Con rito abbreviato Calogero Antonio Montante detto Antonello è stato condannato in primo grado a 14 anni di reclusione e, nel luglio scorso, a 8 anni in appello. Ma i suoi complici, che hanno scelto il rito ordinario, si ritrovano dentro un dibattimento-mostro con trenta imputati messi insieme da un’ordinanza che ha riunificato due distinti processi. Operazione che non promette nulla di buono sull’esito finale. Al contrario: è quasi scontato che la sentenza possa sopraggiungere dopo che il tempo estingua le pene.

Un tribunale senza giudici

Cosa è accaduto? È accaduto che per mancanza di giudici – ma anche perché nessuno ci aveva pensato prima – l’unico presidente della sezione penale del tribunale di Caltanissetta, Francesco D’Arrigo, che è pure il presidente del primo processo Montante con rito ordinario, è stato in qualche modo costretto ad accorpare un secondo processo Montante al primo “condannando” praticamente alla prescrizione tutti gli imputati.

L’ha fatto per “evidenti ragioni di economia processuale” e lo ha notificato in aula: «Vista la comunanza di fonti di prove e di lista dei testi, e in considerazione del fatto che si tratta di giudizi tra loro connessi in cui risulta contestato il reato di associazione a delinquere, la riunione non determina ritardo ma ne consente una più rapida esecuzione».

La decisione di D’Arrigo ha voluto anche evitare di trascinare sé stesso in condizioni di “incompatibilità”: con due processi distinti avrebbe giudicato imputati nel primo e poi nel secondo grado con il rischio reale di scivolare in una posizione di contrasto. La sua ordinanza in teoria non fa una grinza, sulla carta è tutto perfetto. Il problema è che questo maxi processo, se va bene, non finirà prima di quattro o anche cinque anni. Così una camera di consiglio durata una dozzina di minuti ne ha già segnato il destino.

Udienze al rallentatore

Perché? Perché si deve ricominciare tutto daccapo. Iniziato nell’ottobre del 2018, il processo con i primi 18 imputati è andato avanti stancamente con due udienze al mese, in mezzo anche il blackout del Covid. Con l’arrivo di altri 13 nuovi imputati è probabile che si replichi il copione del primo processo, con l’aggravante che le difese – diritto sacrosanto – chiedano l’ “inutilizzabilità” degli atti precedenti. Si tornerebbe all’ottobre del 2018 o giù di lì. E poi ci saranno pure i nuovi testimoni da ascoltare, quelli della seconda tranche del processo. Il presidente del tribunale ha già fissato il calendario delle udienze fino al giugno 2023: una a ottobre, una a novembre, due a dicembre, una a gennaio, due a febbraio, una a marzo, due ad aprile, due a maggio, due a giugno. Quindici udienze in nove mesi, meno di due ogni trenta giorni. Una media ancora più bassa del primo dibattimento. E se il primo processo è durato quattro anni e non è ancora finito, quanto potrà durare con questa cadenza il primo aggiunto al secondo? È un processo già in agonia ancora prima di prendere respiro.

Contro la riunificazione dei due dibattimenti si sono schierati quasi tutti: i quattro pubblici ministeri, le parti civili, anche la stragrande maggioranza dei difensori degli imputati. Eppure, a Caltanissetta, hanno fatto il “miracolo” in nome di una giustizia più efficiente.

Forse qualcuno, in quel tribunale, avrebbe dovuto prevedere in tempo e avrebbe dovuto provvedere in tempo. Magari chiedendo l’istituzione di una seconda sezione penale per non portare il presidente Francesco D’Arrigo a un harakiri.

Mai con il suo vero nome

Questa è una storia esemplare di come lo stato non riesca fino in fondo ad amministrare giustizia e di come, in sostanza, possa mortificare un’indagine poliziesca di eccellente livello e un’inchiesta giudiziaria molto faticosa e sviluppata tutta controvento. Il processo Montante non è un processo qualunque, alla sbarra ci sono pezzi da novanta degli apparati dello stato che hanno fatto il doppio gioco. Come quel generale Arturo Esposito, direttore dell’Aisi, i servizi segreti civili, che con qualche fedelissimo della sua bottega e un tributarista palermitano ha provato a “bucare” il segreto delle stanze della procura per carpire informazioni sull’indagine a carico di Calogero Montante e anche a carico di sé stesso.

Della partita era anche l’ex presidente del Senato Schifani, che nelle agende di un agente (anche lui imputato) veniva indicato con il nome in codice “Mastro” e qualche volta anche come “professore Scaglione”. Mai con la sua vera identità.

La procura spiata

Ma che c’entra un ex presidente del Senato invischiato in una vicenda di spionaggio e di incursioni nei segreti di una procura della repubblica? Un bel mistero. Schifani al riguardo non ha mai detto una parola e non si è mai visto in aula a Caltanissetta. Come se, in qualche modo, sapesse già che quel processo non gli avrebbe procurato troppi guai. Eppure il suo coinvolgimento l’ha ricordato qualche giorno fa, in dibattimento, il pubblico ministero Maurizio Bonaccorso: «La procura di Caltanissetta ha operato controcorrente, perché mentre indagava veniva spiata, accerchiata da apparati istituzionali come il Servizio centrale operativo della polizia, l’Agenzia di informazioni e sicurezza interna e da qualche senatore della repubblica». Il senatore è lui, “Mastro” Schifani o anche “Professore Scaglione”.

Cosa succederà nei prossimi giorni al tribunale di Caltanissetta? Si farà una riunione per tentare di risolvere questo pasticcio, forse i procuratori chiederanno al presidente D’Arrigo di raddoppiare le udienze. Una via d’uscita per salvare il processo ai complici di Calogero Antonio Montante detto Antonello, processo delicato per più di un motivo. Non ultimo la promiscuità accertata fra numerosissimi magistrati e lo stesso Montante. L’ex vicepresidente di Confindustria era l’invitato speciale alle inaugurazioni degli anni giudiziari, sempre in prima fila.

Un ospite di riguardo

Era un ospite di riguardo in Corte d’appello, qualche amico fra i giudici delle indagini preliminari, affetto e sostegno in procura generale. Tant’è che, per rappresentare contro di lui l’accusa in appello, il pubblico ministero è arrivato da un altro distretto, Catania. Tutti elementi che avrebbero dovuto suggerire ai vertici del tribunale di Caltanissetta un’attenzione particolare al processo e alle pieghe che avrebbe potuto prendere. Ciò non è avvenuto.

Di questa sgradevole situazione, a questo punto, non si avvantaggerà solo l’imputato Montante ma anche tutti gli altri. A cominciare dal senatore che corre per diventare governatore della Sicilia. Lo possiamo già considerare (quasi) innocente prima del verdetto.

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