Se è molto difficile fare previsioni climatiche per il futuro, non c’è dubbio che uno sguardo al passato può esserci d’aiuto, in quanto ci sono già state situazioni simili a quella che stiamo vivendo ai nostri giorni. Spiega Jack Williams, paleoclimatologo dell’Università del Wisconsin sul sito The Daily Galaxy: «Mentre immettiamo sempre più gas serra nell’atmosfera e le temperature aumentano, stiamo rapidamente riavvolgendo l’orologio climatico a situazioni avvenute nel passato, ma che non sono mai state viste nella storia umana.

Non c’è dubbio che nei prossimi decenni i climi assomiglieranno maggiormente a quelli del caldo Pliocene (con temperature più alte di 3-4°C rispetto a oggi), di circa tre milioni di anni fa, o dell’Eocene (50 milioni di anni fa), quando le temperature salirono velocemente di 6°C rispetto alle medie di allora».

Ma quando avverrà tutto ciò? Già domani o tra decenni o secoli? La risposta è molto complessa. Spiega Daniel Rothman, professore di geofisica e co-direttore del Lorenz Center del Mit, in un suo lavoro dal titolo Soglie di catastrofe nel sistema terrestre: «È possibile che i forti stravolgimenti non avvengano in tempi brevissimi, ma se il ciclo del carbonio venisse lasciato incontrollato, in poco tempo si potrebbe arrivare a un regno di instabilità climatica la cui evoluzione sarebbe molto difficile da prevedere, ma certamente sarebbe un periodo non semplice in cui vivere».

Peter Raymond, professore di Ecosystem Ecology alla Yale University ed editore e direttore della rivista Global Biogeochemical Cycles dell’American Geophysical Union, dipinge un quadro più drastico: «Non c’è dubbio che gli oceani stanno diventando più acidi a causa dell’anidride carbonica messa in circolazione. Ora, anche se i tempi sono difficili da definire (che sia o meno il 2100), non c’è dubbio che la scala dell’acidificazione e del riscaldamento in atto negli oceani porterà a una massiccia distruzione degli ecosistemi oceanici. E da qui una cascata di conseguenze ambientali è inevitabile».

L’affermazione è basata sul fatto che negli ultimi 540 milioni di anni, la Terra ha subito cinque (forse 4 secondo alcune analisi) eventi di estinzione di massa, ciascuno dei quali ha coinvolto processi che hanno sconvolto il normale ciclo del carbonio presente nell’atmosfera e negli oceani. Rothman, analizzando i cambiamenti significativi nel ciclo del carbonio negli ultimi 540 milioni di anni, ha identificato l’esistenza di «soglie di catastrofe» nel ciclo del carbonio che, se superate, portano a un ambiente instabile e, infine, a un’estinzione di massa.

In un articolo pubblicato su Science Advances, Rothman ritiene che l’estinzione di massa si verifica quando si raggiunge una di queste due situazioni o, se si vuole, «soglie del carbonio»: la prima vale per i cambiamenti nel ciclo del carbonio che si verificano su medie-lunghe scale temporali, in questo caso si avranno estinzioni se tali cambiamenti si verificano a ritmi più rapidi di quanto gli ecosistemi globali possano adattarsi. La seconda vale per le perturbazioni del carbonio che si verificano in tempi brevi (come quello che sta succedendo adesso), in questo caso ha importanza la dimensione del cambiamento per quella particolare situazione ambientale.

Adattando questo ragionamento alle condizioni attuali Rothman ipotizza che una possibile sesta estinzione dipenderà da quanto carbonio finirà negli oceani. C’è un elemento “nascosto" infatti, all’interno del ciclo naturale del carbonio della Terra che deve essere tenuto in considerazione. Il ciclo del carbonio è essenzialmente un “equilibrio” tra fotosintesi (che sottrae anidride carbonica dall’atmosfera) e respirazione (che la immette). Normalmente però, in questo ciclo c’è una “perdita”, in quanto una piccola quantità di carbonio organico affonda sui fondali degli oceani e, nel tempo, viene sepolta come sedimento e diventa roccia. Se si impedisce questa perdita, ossia se si immette sempre più anidride carbonica tale da non avere la perdita, salta l’equilibrio e si arriva nel “territorio instabile”.

Lavorando su questo ciclo, Rothman ha calcolato che la massa critica di carbonio per i giorni nostri che può portare al l’alterazione del ciclo è di circa 310 gigatonnellate. Ebbene lo scenario migliore prevede che gli esseri umani immetteranno nell’atmosfera 300 gigatonnellate di carbonio entro il 2100, mentre nello scenario peggiore verranno aggiunti più di 500 gigatonnellate, superando di gran lunga la soglia critica. In tutti gli scenari, dunque, il ciclo del carbonio sarà vicino o ben oltre la soglia della catastrofe. È vero che le specie sulla Terra oggi hanno avuto un antenato che è sopravvissuto all’Eocene e al Pliocene (periodi molto più caldi di oggi, al di là della fatidica soglia dell’anidride carbonica), ma resta da vedere se gli esseri umani e la flora e la fauna con cui abbiamo familiarità saranno in grado di adattarsi ai rapidi cambiamenti in atto.

«Il tasso accelerato di cambiamento sembra essere più veloce di qualsiasi cosa la vita sul pianeta abbia mai sperimentato prima», sottolinea Rothman. Il ricercatore tuttavia, lascia una porta aperta all’ottimismo e sottolinea che se da un lato la Terra si sta dirigendo verso l’ignoto che si avrà durante la vita dei nostri figli e dei nostri nipoti, dall’altro, la vita ha da tempo dimostrato di essere resiliente. «C’è un elemento importante da sottolineare», dice Williams. «Si tratta del fatto che non sempre le grandi immissioni di anidride carbonica in atmosfera creano spaventose estinzioni di massa. L’esempio più vicino al rapido riscaldamento odierno è il riscaldamento con il massimo termico Paleoeocene-Eocene (circa 55,5 milioni di anni fa), che venne innescato da un rilascio di carbonio nell’atmosfera equivalente a quello che si otterrebbe bruciando tutte le riserve di carbone dei nostri giorni. Ciò, tuttavia pur causando diffusi cambiamenti nella gamma delle specie e trasformazioni degli ecosistemi, portò a poche estinzioni. Le grandi estinzioni di massa del passato sembrano essere state causate da un cocktail tossico di più elementi: ad esempio, l’interruzione del ciclo del carbonio combinata con gli acidi sulfurei rilasciati dai vulcani, o l’impatto di un meteorite combinato con l’oscuramento della luce solare in tutto il mondo, bloccata dalla polvere. La preoccupazione di oggi è che il cocktail tossico stia nelle grosse immissioni di anidride carbonica combinato con un’agricoltura fortemente intensiva, la caccia e la pesca eccessiva, il cambiamento nell’uso del suolo e altre pressioni umane. Se non controllati, questi hanno un alto rischio di accelerare i già alti tassi di estinzione, portando a una possibile sesta estinzione di massa.

Gli antichi siti Maya

Dalla superficie terrestre non si possono vedere, eppure sono lì. Si tratta di centinaia di antichi siti cerimoniali recentemente scoperti da un gruppo di archeologi, molti dei quali appartenenti alla civiltà Maya e che risultano nascosti appena sotto il paesaggio del moderno Messico meridionale.

La più grande di queste strutture – chiamata Aguada Fénix – è stata svelata al pubblico dagli archeologi lo scorso anno ed è risultato il più antico e più grande monumento degli antichi Maya mai portato alla luce. Ma Aguada Fénix non era solo. In un nuovo studio, un gruppo internazionale di ricercatori guidati dall’antropologo Takeshi Inomata dell’Università dell’Arizona, riporta l’identificazione di quasi 500 complessi cerimoniali risalenti non solo ai Maya, ma anche a un’altra civiltà mesoamericana che ha lasciato le proprie testimonianze prima dei Maya, gli Olmechi. Come per la scoperta di Aguada Fénix, i siti individuati nella nuova analisi, che in tutto sono 478, sono stati individuati allo stesso modo: utilizzando il Lidar, che “pettina” il terreno dall’alto di un aereo con il laser, rilevando strutture archeologiche tridimensionali sepolte sotto la vegetazione e altre caratteristiche dell’antica superficie.

In questo caso, i dati Lidar erano già disponibili al pubblico, per concessione dell’Istituto nazionale di statistica e geografia del Messico, e coprivano un’area di 85.000 chilometri quadrati. Quando Inomata e i suoi collaboratori hanno analizzato il materiale, hanno identificato con una certa facilità centinaia di siti cerimoniali sparsi tra gli stati messicani di Tabasco e Veracruz, molti dei quali precedentemente sconosciuti. La maggior parte delle nuove scoperte sono molto più piccole della tentacolare Aguada Fénix – che misura oltre 1.400 metri di lunghezza nella sua massima estensione – ma nel loro insieme le “nuove” strutture rivelano una misteriosa idea progettuale che finora non era stata capita pienamente studiando le strutture Maya.

Secondo i ricercatori infatti, una configurazione inedita dell’antica città olmeca di San Lorenzo – il più antico centro urbano olmeco, risalente al 1150 a.C. circa – può essere vista come un motivo ricorrente nelle successive strutture costruite dai Maya, le quali riecheggiano la struttura rettangolare centrale di San Lorenzo, adottandone la configurazione.

«Si era sempre ipotizzato che San Lorenzo fosse davvero unico e che abbia fatto da spartiacque tra quello che venne prima e dopo in termini di strutturazione di un sito», ha detto Inomata. «Ma ora si dimostra che Aguada Fénix è molto simile a San Lorenzo: ha una piazza rettangolare fiancheggiata da piattaforme marginali. Questo ci dice che San Lorenzo è stato molto importante quando i Maya realizzarono i loro edifici». Se fosse realmente così, l’architettura dimostra che ci fu un importante legame tra queste due civiltà, che si sono parzialmente sovrapposte nel tempo ma che hanno anche raggiunto l’apice in diversi momenti della storia mesoamericana, con la fioritura degli Olmechi tra il 2000 a.C. e il 250 d.C., mentre i Maya crebbero nel dominio e nell’ingegnosità strutturale nel periodo classico (250-900 d.C.).

Oltre ad analizzare i dati Lidar, gli archeologi hanno anche condotto osservazioni preliminari a terra, in 62 dei siti, che nel complesso si stima risalgano a circa 1050-400 a.C. e si pensa siano stati utilizzati come spazi rituali, dove le persone si riunivano per cerimonie e processioni. Alcuni dei siti sono orientati verso il sorgere del sole in determinate date dei calendari mesoamericani, ciò suggerisce che i processi rituali erano legati a concetti cosmologici come il rinnovarsi delle stagioni.

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