Le seconde linee della Roma non valgono il Bodøe Glimt. Detta al bar non farebbe nemmeno ridere. Ma detta da José Mourinho, che della squadra giallorossa è allenatore e dovrebbe riportarla ai massimi livelli competitivi in Italia e in Europa, la dichiarazione provoca sconcerto.

Eppure è esattamente ciò che il tecnico portoghese ha affermato a margine dell’umiliante sconfitta (6-1) subita giovedì sera in Norvegia, al termine della gara di Conference League.

Dopo essersi assunto ogni responsabilità della disfatta, cosa che ormai fa d’ufficio col piglio da grande condottiero che fu, l’uomo di Setúbal ha aggiunto che la rosa della squadra giallorossa può contare su 12-13 titolari di qualità e affidabilità massime, mentre il resto del gruppo sarebbe di livello nettamente inferiore.

Abbastanza da prenderne 6 dai norvegesi, che per affacciarsi in Europa da campioni nazionali devono approdare alla terza coppa continentale? Pare di sì. Almeno a giudizio di Mourinho.

E la sua non è una semplice valutazione tecnica, piuttosto un giudizio sulle strategie della società in sede di costruzione della squadra e sulle prospettive della stagione.

A partire da quelle relative alla stessa Conference League, che per la Roma sembrava una manifestazione alla portata e invece si è trasformata d’improvviso in prova complicata e foriera di umiliazioni.

Un risveglio brusco per tutti tranne che per lui, convinto che questo gruppo non possa dare più di tanto e sia nelle condizioni di prenderne 6 sul campo di una squadra da quarta o quinta fascia europea.

Missione fallita?

Ma davvero le seconde linee della Roma sono scarse abbastanza da subire 6 gol dai campioni di Norvegia? Secondo il nostro modesto parere no.

Ma non è nemmeno questo il punto. C’è che una dichiarazione del genere è totalmente fuori registro rispetto alla missione che il mondo giallorosso ha affidato a José Mourinho.

Percepito da queste parti come se fosse ancora lo special one, capace di trasformare una squadra normale in una banda vincente grazie al capitale di carisma personale.

E invece la notte da incubo vissuta lassù, in prossimità del circolo polare artico, ha portato un gelo supplementare per il romanismo: non soltanto questa squadra aggiorna la serie delle scoppole memorabili in Europa (dopo i due 1-7 degli anni recenti, con avversarie che però si chiamavano Manchester United e Bayern Monaco), ma scopre anche che il suo condottiero si arrende allo stato avverso delle cose anziché provare a trasformarlo attingendo a quel bagaglio di doti personali per il quale è stato ingaggiato. E viene abbondantemente pagato.

Mourinho si arrende alla realtà di un gruppo giudicato (da lui) scarso, anziché perseguire l’obiettivo di fargli compiere il salto di qualità. Che in fondo sarebbe il mestiere di qualsiasi allenatore, special o normal che sia.

Chiunque vorrebbe i migliori in circolazione, ma invece quasi sempre bisogna cavare il meglio dai calciatori che si ha. Dire improvvisamente a fine ottobre che questo gruppo ha solo 12-13 titolari è da normal one. Da allenatore che va a caccia di alibi anziché sbattersi per oltrepassare i limiti.

Da un portoghese all’altro

Ma allora il famoso effetto-Mou, quella scossa che ha galvanizzato il popolo giallorosso e fatto intravedere il ritorno alla grandezza, è già esaurito? Calma, è presto per dirlo.

Però dopo i primi due mesi di stagione qualche valutazione può anche essere abbozzata. E da questa valutazione emergono indicazioni non in linea con le ambizioni dei tifosi romanisti.

La Roma ha già collezionato 4 sconfitte su 13 gare ufficiali stagionali, di cui 3 su 8 di campionato. In particolare, i rovesci nel torneo di Serie A fanno riflettere.

Soprattutto i due rimediati nel derby contro la Lazio e all’Allianz Stadium contro la Juventus. Cioè due avversarie designate nella corsa a un piazzamento in Champions League, traguardo che la Roma fallisce dalla stagione 2018-19.

Il piazzamento nella principale coppa europea è l’obiettivo minimo che la Roma chiederebbe a Mourinho. E invece il primo scorcio di campionato ripresenta i sintomi della malattia che ha compromesso il cammino giallorosso sotto la guida dell’altro portoghese che ha preceduto Mou, Paulo Fonseca.

La Roma di Fonseca vinceva quasi mai con le squadre di prima fascia e proprio a causa di questo deficit non si è mai schiodata dalla mediocrità delle ultime stagioni.

La competitività contro le avversarie di prima fascia doveva essere il primo segnale di svolta. E invece le sconfitte contro Lazio e Juventus lanciano un messaggio inquietante: sulla panchina giallorossa potrebbe sedere un Fonseca-bis, soltanto più abile dialetticamente nonché esageratamente più pagato.

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