Durante i due anni che Johann Wolfgang Goethe trascorre in Italia si ferma per un po’ a Capua, cuore della pianura campana. È il febbraio del 1787 e sono gli anni più felici della sua vita. Nel descrivere quella campagna, che collega Caserta a Napoli, lo sguardo dello scrittore si posa con meraviglia su una scenografica coltivazione mai vista prima: sconfinati filari di pioppi accoglievano un intreccio di rami di vite, arrampicate sulle fronde per decine di metri in altezza, alla ricerca della luce.

«Così si continua fino a Napoli», racconta nel suo Viaggio in Italia. «Un suolo terso, deliziosamente soffice e ben lavorato, viti d’eccezionale altezza e robustezza, coi tralci fluttuanti di pioppo in pioppo, a mo’ di reti». Goethe osserva la tecnica produttiva tipica di un presidio vinicolo antichissimo, che per secoli ha definito il solo paesaggio dell’agro aversano. Da quelle viti, allevate “ad alberata” e “maritate” con i pioppi, ne deriva un vino di grande acidità e facile spumantizzazione: l’Asprinio di Aversa, bianco, secco, leggero, e famoso in tutto il mondo.

Il “grande, piccolo vino”

L’elogio dell’Asprinio d’Aversa e del suo particolare allevamento ad alberata attraversa i secoli: se ne scoprono tracce nella Naturalis historia di Plinio il Vecchio, pare che lo spumante derivato da quelle uve bandisse le tavole della corte di Roberto D’Angiò e che papa Paolo III Farnese se ne dissetasse d’estate. Lo celebra la penna del drammaturgo francese Alexandre Dumas, e, in tempi più recenti, lo scrittore Mario Soldati lo definisce un «grande, piccolo vino». Un vino regale, un patrimonio paesaggistico e genetico, ma anche umano, legato al modo portentoso con cui gli operatori gestiscono le coltivazioni.

«Per poter potare, raccogliere, e trattare le alberate si utilizzano scale lunghe più di 10 metri, costruite in base alla lunghezza della gamba del coltivatore, che si incastra sui gradini così da poter lavorare con entrambe le mani», dice Angelo Lo Conte, presidente Slow Food Campania, che conta l’alberata aversana tra i suoi presidi. «Parliamo quindi di una coltivazione eroica, oltre che estremamente sostenibile sotto il profilo ambientale. La distanza tra i filari, che consente alla luce di raggiungere tutta l’alberata, permette l’applicazione dell’agricoltura biologica. Inoltre, grazie allo sviluppo in altezza, si esercita una minore pressione sul terreno, che preserva così la sua fertilità naturale».

Un patrimonio a rischio estinzione

Delle lunghe fila di pioppi e viti descritte da Goethe oggi non c’è più traccia. Quella coltivazione agricola, così diffusa, ha lasciato il posto a una abnorme cementificazione, e quei filari sono diventati condomini. «Si stima che siano state abbattute il 95 percento delle coltivazioni ad alberata e che ne rimangano al massimo un centinaio di ettari, molto spesso in stato di abbandono».

A parlare è Francesco Pascale, fondatore della cooperativa sociale Terra Felix, tra le poche realtà impegnate a salvare l’Asprinio.
Terra Felix lavora sul territorio casertano da undici anni, su terreni abbandonati o confiscati. «In entrambi i casi portiamo avanti progetti di rigenerazione urbana e sociale», continua Pascale. «Due anni fa, per esempio, abbiamo recuperato un’alberata in stato di abbandono che la curia ci ha ceduto per un affitto simbolico, in cambio di una rigenerazione ambientale con inserimento lavorativo».

Rigenerare e sovvertire

Terra Felix vuole invertire la narrazione che domina un territorio complesso: nella terra dei fuochi, violentata dagli sversamenti illegali, ripristina la ricchezza del biologico e dei prodotti certificati; in una regione con un tasso di disoccupazione giovanile e femminile tra i più alti d’Italia, la cooperativa conta undici lavoratori a tempo indeterminato, con età media di 32 anni e il cui 60 percento sono donne. Diversi di loro, dopo un passato difficile, ha ritrovato un legame sano con quella terra, oltre che un lavoro stabile e gratificante. «Qui le persone sono al primo posto», dice Nicola Margarita, eco designer di Terra Felix, che dopo un periodo trascorso all’estero sceglie di restare nella sua terra. «Allo stesso tempo, si lotta sempre contro le variabili che ci remano contro: i progetti che rallentano, i presidi persi, chi non crede nella nostra visione di sostenibilità sociale ed economica. È un dispiacere continuo, uno spillo nel fianco. In cooperativa però ci facciamo forza e ci compensiamo, proprio come l’acqua nei vasi comunicanti».

Durante l’estate Terra Felix ha subito due gravi incendi, entrambi dolosi: prima brucia la macchina di un dipendente storico, e poi, dopo qualche settimana, va a fuoco un campo di cardo nei pressi di Santa Maria la Fossa, confiscato al clan di Francesco Schiavone. «È una terra difficile, ma sono qui per combattere per lei», dice Colomba Sannino, promotrice dei prodotti vitivinicoli della cooperativa. «Nel mio lavoro c’è la voglia di contagiare le nuove generazioni con un racconto d’amore per il territorio. Una bottiglia di Asprinio che nasce a Terra Felix non è un semplice vino. È un progetto di rigenerazione e tradizione, la storia di una coltivazione antica che stava andando a morire e che invece esiste ancora. E questa storia deve arrivare prima dell’assaggio».

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