Prevost, chi era costui? La domanda manzoniana non è certo stata quella dei 133 cardinali. I quali infatti lo hanno eletto speditamente, nell’arco di una ventina di ore e con sole quattro votazioni, addirittura meno di quelle impiegate per scegliere Bergoglio. Segno indubbio che gli elettori conoscevano molto bene il sessantanovenne religioso «figlio di sant’Agostino», il quale poco dopo l’elezione si è presentato dalla loggia di San Pietro con le parole del genio africano: «Con voi sono cristiano e per voi vescovo».

Non l’hanno visto arrivare

Americano come Francesco, il nuovo vescovo di Roma è il primo statunitense. Dunque un’altra rivoluzione dopo le elezioni dei tre predecessori non italiani. Un americano del nord opulento che a più riprese ha passato molti anni in Perù ed è per questo il primo papa panamericano, come la mitica lunghissima strada che da quasi un secolo collega l’Alaska alla Patagonia. E unisce, tra paesaggi diversissimi, il nord al sud del mondo: suggestivo ed eloquente auspicio per il nuovo «romano pontefice», fin dall’etimologia costruttore di ponti.

L’elezione lampo è dovuta al fatto che molti cardinali già avevano incontrato e conoscevano Prevost, che negli ultimi due anni Bergoglio aveva messo a capo dell’organismo curiale preposto alla nomina e agli affari dei vescovi. Per altri elettori invece la conoscenza risaliva al tempo in cui come superiore generale degli agostiniani il religioso davvero girava il mondo.

Insomma, solo Pietro Parolin, come nunzio in Venezuela e poi soprattutto come segretario di stato di Bergoglio, era più conosciuto di Prevost. Ma questo non è bastato, mancando al fine diplomatico italiano il profilo pastorale, tratteggiato e invocato per il nuovo papa in molti interventi cardinalizi. E sul cardinale veneto devono avere pesato anche le ombre del criticatissimo processo vaticano e la vicenda del confratello Angelo Becciu, escluso dal conclave.

Tutto questo è sfuggito però alla stragrande maggioranza dei media, da quanto si è sentito e si è letto durante la sede vacante. L’informazione, soprattutto in Italia, ma non solo, è stata infatti strabordante e ossessiva, infondata e acritica come mai prima. Anche su circostanze obiettivamente incontrollabili come i presunti pacchetti di voti che sarebbero stati a disposizione dell’uno o dell’altro candidato, tra quelli ritenuti dai media papabili: profili di cardinali fino a poco prima magari sconosciuti, che sono stati presentati – alternati da un giorno all’altro senza coerenza persino sulle stesse testate – con biografie e fotine inevitabilmente simili alle figurine dei calciatori che i bambini prediligono. Così molte testate il papa non l’hanno proprio visto arrivare, come ora usa dire nella politica italiana. La circostanza è stata forse anche causata dall’irresistibile tentazione di favorire il ritorno del papato in Italia dopo quasi mezzo secolo. Ma questa al contrario ha suscitato commenti arguti, come quello sul papa divenuto uno dei mestieri che gli italiani non vogliono più fare (anche se in realtà è esattamente il contrario).

L’agostiniano

Il vescovo di Roma viene eletto da prelati che formalmente sono tutti titolari di chiese romane, antichissime ma, per la crescita del numero dei cardinali, anche moderne. Tra queste ultime vi è la chiesetta di Santa Monica – poco più di un’austera cappella intitolata alla madre di Agostino, che nelle Confessioni la piange con lacrime struggenti – di fronte al massiccio palazzo del Sant’Uffizio all’ombra di San Pietro. Sono questi i luoghi romani del nuovo papa, che vi ha vissuto a lungo. Qui è tornato nella sua prima uscita la sera stessa dell’elezione per salutare al Sant’Uffizio i vicini di casa. E accanto alla chiesa di Santa Monica – della quale era titolare come cardinale diacono prima di divenire all’inizio dell’anno cardinale vescovo della sede suburbicaria di Albano – sorge la curia degli agostiniani, dove Prevost viveva come superiore generale dell’ordine, ora presa d’assalto da giornalisti di tutto il mondo che vogliono raccontare il papa sconosciuto. Il religioso statunitense si era poi trasferito in Perù, dove già era stato missionario. Qui è stato in seguito vescovo di Chiclayo. Infine nel 2023 è rientrato a Roma e – come altri prelati e cardinali (tra cui Angelo Becciu) – risiedeva nel grande palazzo del Sant’Uffizio, di fronte dunque a Santa Monica e ai suoi agostiniani, che da oltre mezzo secolo vi hanno costituito uno dei più importanti centri di studio sul cristianesimo antico, l’Istituto patristico Augustinianum.

Alla tradizione agostiniana Leone XIV è ovviamente molto legato. Al santo dottore della chiesa Prevost ha voluto ispirare motto e stemma, dove spicca il simbolo agostiniano del libro e del cuore – «là dove sono ciò che sono», scrive il pensatore africano nelle Confessioni – per raffigurare le Scritture e l’amore divino. Il motto, tratto invece dallo sterminato commento ai Salmi, si riferisce a Cristo: in lui solo è l’unità (In Illo Unum uno), e su Gesù, «il figlio del Dio vivente», il papa aveva appuntato l’attenzione nella prima omelia nella cappella Sistina rivolta tradizionalmente al collegio cardinalizio il giorno successivo alla sua elezione.

La citazione di Montini

Con i cardinali il papa si è di nuovo incontrato 24 ore più tardi, ma questa volta in un inusuale prolungamento delle riunioni che hanno preparato l’elezione papale con efficacia clamorosa, tenendo conto del conclave lampo. L’incontro, aperto da un discorso di Leone XIV, era stato infatti richiesto dagli stessi cardinali come condivisione – ha puntualizzato lo stesso pontefice – per ascoltare «consigli, suggerimenti, proposte». Poi è continuato a lungo. Il segnale appare chiaro: il nuovo papa intende reintrodurre la dimensione della collegialità disegnata dal concilio Vaticano II e trascurata dal governo solitario e autocratico di Francesco, ripetutamente criticato per un autoritarismo da lui stesso più volte riconosciuto. Privilegiato era il metodo consultivo riassunto nella «sinodalità» ma questo, nonostante la retorica vaticana, non ha finora portato molti risultati. In questo contesto il pontefice – ha ribadito Prevost – è solo «un umile servitore di Dio e dei fratelli», riecheggiando il più bel titolo papale: servus servorum Dei («servo dei servi di Dio»), in uso dal tempo di Gregorio Magno, cioè da oltre quindici secoli.

Al predecessore, che l’ha voluto a Roma e creato cardinale, Leone XIV ha reso omaggio, intessendo al tempo stesso il suo breve discorso – di stile molto personale – di essenziali riferimenti a Benedetto XVI e al concilio. La più lunga citazione è stata però riservata da papa Prevost a un brano di Paolo VI tratto da un messaggio «all’intera famiglia umana».

Montini lo scrisse nel 1963 il giorno successivo alla sua elezione con la sua retorica, appassionata e un po’ desueta: «Passi su tutto il mondo come una grande fiamma di fede e di amore che accenda tutti gli uomini di buona volontà, ne rischiari le vie della collaborazione reciproca, e attiri sull’umanità, ancora e sempre, l’abbondanza delle divine compiacenze, la forza stessa di Dio, senza del quale, nulla è valido, nulla è santo». Parole che Leone XIV rilancia oggi.

© Riproduzione riservata