«Il punto è a chi interessa tutto questo? A pochi, ormai non legge più nessuno», dice Capacchione poco dopo la condanna al capo del clan dei Casalesi, Francesco Bidognetti e al suo avvocato, Michele Santonastaso. Come Roberto Saviano anche Capacchione vive da anni scortata per le minacce subite, racconta il potere del clan e le scelte fatte
«A volte ho la sensazione di aver perso un sacco di tempo. Perché? Perché non è cambiato nulla». A dirlo è la giornalista Rosaria Capacchione. Oggi era in aula, insieme allo scrittore Roberto Saviano, per ascoltare il verdetto della corte di Appello di Roma. I giudici hanno condannato il capo del clan dei Casalesi, Francesco Bidognetti e il suo avvocato, Michele Santonastaso. Le minacce erano state rivolte a Saviano e Capacchione durante l’udienza del processo Spartacus. Correva l’anno 2008, precisamente 17 anni fa.
La giustizia è arrivata, ma sono passati quasi due decenni. Cosa racconta questo verdetto?
Racconta l’impresa titanica che bisogna affrontare ogni volta che sei parte offesa in un procedimento. Una lotta esasperante, se non sei forte, rinunci. Rinunci per il tempo sprecato, le giornate perse, i costi sostenuti. Noi siamo cittadini privilegiati perché abbiamo una rete di protezione anche legale, ma un cittadino qualunque no. E c’è un altro aspetto, troppe volte ignorato, legato al potere dei clan. In questo tempo di attesa di giustizia si sedimenta un vuoto di tutela che viene riempito da altri soggetti: la mafia interviene quando lo stato non c’è. L’attesa lunga può essere tollerata e sopportata se si hanno i mezzi, la pazienza e un grande senso etico.
Quando è stato pronunciato il verdetto cosa hai provato?
Io sono una cinica cronista di strada, ho smesso di emozionarmi moltissimi anni fa. Però mi ha cambiato la vita, non tanto per la presenza fissa della tutela, ormai siamo diventati amici, ma per la inevitabile limitazione degli spazi, della libertà, del tempo. Si può tollerare solo se sei arrogante e pensi di disporre delle persone 24 ore su 24. E poi questa vicenda mi ha ingabbiato in un ruolo che non mi appartiene, io non amo presenziare, fino al 2008 non trovi una mia fotografia neanche a casa mia. Comparire non mi è mai piaciuto, non è il mio. L’altra gabbia è stata professionale, io sono una giornalista curiosa e conservo questa dote, ma sono diventata unicamente il racconto del clan dei Casalesi.
Sono passati 17 anni, cosa è cambiato in terra casertana?
Per capire la provincia di Caserta bisogna pensare alla Sicilia, alla struttura mafiosa. I poteri criminali si sono adeguati più velocemente, hanno capito la trasformazione come il ruolo delle criptovalute e hanno investito, ma il sistema di contrasto è rimasto indietro. Abbiamo cercato le bufale e le masserie, ma le ricchezza no, non ricordo di broker o commercialisti coinvolti in inchieste sulle criptovalute. Bisogna raccontare i rapporti di potere ed è una dimensione che supera il codice penale. Io penso che la corruzione non spieghi questa fase, credo che siamo di fronte a qualcosa di più rilevante. Un sistema di cordate che si regge sulla cooptazione, sia a livello professionale che imprenditoriale, dove non si entra facendo la domanda e neanche con la valigia con i soldi, ma attraverso l’appartenenza. L’utilità non si misura subito, ma è prospettica, un dottorato di ricerca, un incarico, contropartite non subito monetizzabili, ma importanti. Siamo in paese dove l’ascensore sociale è fuori uso.
Come si è trasformato il clan dei Casalesi?
La parte militare, i superstiti o parenti, fa droga perché è il sistema più rapido e veloce con rischio minimo. Andare a chiedere tangenti significa avere la certezza matematica di finire in carcere, fare droga, invece, significa avere campo libero. Una dimensione che li rende quasi invisibili, si sono nascosti, si sono mimetizzati anche perché non ci tocca, non ci riconosciamo, non bussano alle nostre porte. Poi c’è il tema del riciclaggio, ho dei sospetti forti su alcune crescite imprenditoriali misteriose, capitali di ignota provenienza su cui nessuno indaga. Gli omicidi, le stragi sono facilmente assimilabili ai poteri criminali, ma quando non ci sono le mafie si dissolvono anche nel racconto. Restano le ricchezze, i capitali, i soldi e quelli fanno pure comodo perché producono consenso e ricchezza.
Guardandoti indietro rifaresti tutto?
Io farei esattamente le stesse cose, mi sono divertita tanto a fare il mio lavoro. La sensazione di raccontare qualcosa che gli altri non sanno è bellissima, mi continua ad accompagnare. Ma sento anche di aver perso molto tempo.
Perché?
Perché non è cambiato nulla. Quelli che erano i miei grandi nemici in modo trasversale continuano a essere i grandi nemici, i miei amici, e ne ho fortunatamente parecchi a 65 anni, sono ancora i miei amici. Il punto è a chi interessa tutto questo? A pochi, ormai non legge più nessuno.
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