Il 23 maggio, anniversario di Capaci, il partito della presidente del Consiglio ha pubblicato un post per contrapporre la memoria dei giudici eroi dell’antimafia a Gomorra di Saviano. Solo qualche anno fa un messaggio del genere avrebbe scatenato il finimondo. Stavolta si sono levate solo timide voci e parole di circostanza. Abbiamo un problema
La mafia si è normalizzata come temeva il giudice Paolo Borsellino, diventando un’indistinguibile melassa tra i diversi livelli di finanza, politica e imprenditoria. L’antimafia se non è normalizzata è perlomeno stanca. Stanca nei riflessi, nella voce, nella capacità di reagire. E la stanchezza, si sa, genera cedimenti. Non fa solo abbassare la guardia: invita alla diserzione.
Il 23 maggio, il giorno in cui il Paese dovrebbe essere capace di ritrovarsi almeno attorno alla memoria di Giovanni Falcone, il partito della presidente del Consiglio, Fratelli d’Italia, ha pubblicato un post in cui – anonimamente, come un pizzino – si colpiva Roberto Saviano attraverso l’opera che più lo rappresenta. «Esempi da evitare», sotto al logo di “Gomorra”, accanto al santino dei giudici eroi. Un attacco infame, calcolato con cinismo. Il giorno simbolico per eccellenza trasformato in un palcoscenico per colpire chi da anni racconta il potere mafioso con una voce che disturba, che infastidisce.
In un Paese sano quell’attacco avrebbe scatenato un terremoto. Non solo per il contenuto, ma per il contesto. Solo qualche anno fa se un partito di governo avesse osato contrapporre la memoria di Falcone a uno scrittore sotto scorta da diciotto anni, la reazione sarebbe stata corale, indignata, unitaria. Avremmo discusso per giorni, avremmo visto gli esponenti storici dell’antimafia sbattere i pugni, salire sui palchi, rispondere colpo su colpo. Invece no. Il silenzio. O, peggio, le frasi generiche, i distinguo, i tweet di circostanza. Nessuna mobilitazione. Nessun appello. Nessuna presa di posizione capace di farsi sentire. La normalizzazione dell’antimafia consente che la strage di Capaci sia un buon appuntamento per le proprie personalissime vendette.
Ma il bersaglio è chiaro e no, non è solo Saviano. Il bersaglio è un intero modo di intendere l’antimafia come impegno civile continuo, come dissenso, come critica al potere. Colpire lui significa testare fino a che punto si può manipolare la memoria, riscrivere i ruoli, usare Falcone come un’arma per tacitare chi disturba. L’avvertimento è per chi si permette di superare le commemorazioni e racconta la mafia di oggi, la mafia che entra nei consigli comunali, in Parlamento, quella che si prende gli appalti, che si mimetizza nei finanziamenti pubblici. Saviano è il paradigma di questa parabola: simbolo potente e fragile, difeso e al tempo stesso abbandonato. Ha pagato, con la solitudine, l’ostinazione di voler continuare a raccontare. Si fosse fermato alla mafia che fu oggi sarebbe un suppellettile che piacerebbe a tutti.
L’attacco di Fratelli d’Italia è stato feroce ma non improvviso. Viene da lontano. Da anni di delegittimazioni, querele, provocazioni, insinuazioni. Il partito di Giorgia Meloni lo ha bollato come «speculatore della mafia», tentando di ridurre il suo lavoro a un’operazione di marketing sulla pelle degli altri. Ma il tempismo – quel 23 maggio – è la parte più oscena. Perché lì si tocca qualcosa di sacro. Perché lì si prova a intestarsi l’antimafia escludendone chi, invece, la rende viva. Perché lì si fa politica con le ossa di chi è morto ammazzato.
E la reazione? Debole. Troppo debole. Qualche politico, qualche voce nei media. Ma nessuna alleanza morale, nessun dibattito televisivo, nessun editoriale dei "grandi giornali" capaci di mettere in fila il significato di quel post. Soprattutto nessuna comunità. Neppure le organizzazioni che in passato hanno fatto dell’antimafia il proprio vessillo hanno trovato parole nette. È questo il punto: la disunità. L’assenza di una coscienza collettiva che sappia riconoscere l’attacco, anche quando colpisce un solo uomo, come un’offesa rivolta a tutti.
Roberto Saviano oggi è diventato un corpo estraneo anche per molti dei suoi "alleati". È diventato indigesto persino per chi, negli anni, gli ha costruito intorno una solidarietà condizionata: ti difendo solo se non parli troppo, se non esageri, se non metti in imbarazzo anche me. E allora diventa facile colpirlo, con l’alibi del “divide”, della personalizzazione. Ma ogni volta che si colpisce lui, si lancia un segnale a tutti gli altri. È la pedagogia del bersaglio: colpirne uno per isolarne cento. Anche quelli che sorridono perché Saviano se le cerca. Chiedete ai corvi contro Giovanni Falcone.
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