La sera del 29 giugno, a palazzo Chigi è stato firmato il decreto per lo sblocco dei licenziamenti, entrato in vigore il giorno successivo, che ha reso di nuovo possibile licenziare i dipendenti impiegati nelle aziende del settore edilizio e manifatturiero. Tuttavia, il decreto n. 99, si legge, «conferma il divieto assoluto di licenziamento per i settori più in crisi e la possibilità, per le altre aziende, di utilizzare altre 13 settimane di cassa integrazione nel 2021». Nonostante le buone intenzioni del governo, diverse multinazionali hanno comunque deciso di avviare le procedure di licenziamento collettivo, mandando a casa migliaia di lavoratori. Nella maggior parte dei casi, i dipendenti sono stati avvisati a tarda sera con un messaggio di posta certificata o, peggio, con un sms.

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Il ministro del Lavoro, Andrea Orlando (Pd) ha definito tali procedure «inaccettabili». Eppure, queste sono possibili dal 2015, grazie al jobs act voluto e approvato dal suo ex capogruppo Matteo Renzi, che dopo la legge Fornero del 2012, ha ulteriormente precarizzato l’agognato “posto fisso”, anziché dare maggiore stabilità e tutela ai precari.
Stando ai dati raccolti dal ministero del Lavoro e da Banca d'Italia, relativi alle comunicazioni obbligatorie dei datori di lavoro, anche in piena pandemia da Covid-19, quando la possibilità di interrompere i rapporti lavorativi era congelata, si sono verificati 550mila licenziamenti. E tuttora, al ministero dello Sviluppo economico, sono aperti 99 tavoli di crisi – 87, precisa il portavoce della viceministra Todde – con 55.817 posti di lavoro in bilico.

Dal 1° luglio, dopo 493 giorni di blocco, i colossi di diversi settori produttivi hanno licenziato in totale 1.704 dipendenti. Un’azione che non coinvolge solo i singoli operai, ma intere famiglie che si ritrovano da un giorno all’altro costrette a grosse difficoltà economiche a causa del processo di delocalizzazione produttiva messo in atto, in particolare, da aziende straniere operanti sul territorio. Le stesse che sfruttano la manodopera per decenni e poi abbandonano il territorio senza una motivazione.

Prima regola: delocalizzare

Il 4 luglio, i dipendenti della Gianetti Ruote di Ceriano Laghetto, in Brianza, hanno ricevuto senza preavviso una mail con oggetto «chiusura dello stabilimento», contenente l’annuncio del licenziamento con effetto immediato. A perdere il lavoro sono 152 dipendenti. L’azienda, che produce componenti metallici per Harley-Davidson, Volvo e Iveco, esiste dal 1880. Ha cambiato diverse volte proprietà e attualmente appartiene a un fondo tedesco, Quantum capital partners, che ha preferito non vendere, risparmiandosi lo sforzo di cercare un possibile acquirente e licenziando in tronco gli addetti alla produzione.
Dopo due settimane, il 20 luglio, nell'ottica di impedire che l'azienda chiuda i battenti e favorire una possibile acquisizione da parte di altri imprenditori, gli organismi sindacali della Brianza hanno proclamato uno sciopero generale di quattro ore e un presidio davanti alla sede della Provincia di Monza e Brianza. Due giorni dopo, il Mise li ha ricevuti per discutere della vertenza che, nonostante la decisione presa dall’azienda, risulta essere ancora aperta.

Il 9 luglio, per 422 lavoratori della Gkn di Campi Bisenzio, provincia fiorentina, la multinazionale ha avviato le procedure di licenziamento collettivo. Anche in questo caso, l’avviso è stato recapitato loro via email. Secondo quanto denunciato dai lavoratori, l’azienda avrebbe intenzione, come tante multinazionali che nell’ultimo periodo hanno avviato la procedura di licenziamento collettivo, di delocalizzare la produzione.
I dipendenti della Gkn, azienda di componenti per l’industria automobilistica di proprietà del fondo britannico Melrose, chiedono a Stellantis di continuare ad acquistare i prodotti dell’azienda e al governo di prendere una posizione netta di fronte a una situazione comune a moltissime persone che da inizio luglio sono state licenziate in massa da diverse multinazionali.
Il 19 luglio, a sostegno dei 422 operai, i sindacati hanno indetto lo sciopero nazionale nel centro di Firenze, dove sono accorse 10mila persone.

Nelle stesse ore, un’altra azienda attiva nell’indotto automotive annuncia il licenziamento collettivo di 106 lavoratori. Si tratta della Timken di Villa Carcina, in Valtrompia (Brescia), che lunedì mattina ha comunicato la chiusura immediata dello stabilimento.
La Timken company è un'azienda costruttrice di cuscinetti a rotolamento, acciai legati e relativi componenti ed è presente in 30 paesi, tra cui l'Italia. lo stabilimento di Villa Carcina è stato aperto nel 1978 e acquisito dalla multinazionale nel 1996.

In Valle D’Aosta, a Verrès, invece, l’azienda tedesca Shiloh, che produce componenti di auto leggeri, è riuscita a non chiudere i battenti, limitando il numero dei licenziamenti. Dei 70 dipendenti in esubero dal 2019, infatti, soltanto 12 sono stati licenziati, l’8 luglio scorso, dal nuovo acquirente. Si tratta della Teksid, appartenente al gruppo Fiat (Stellantis) e considerata tra i leader mondiali nella produzione di ghisa e alluminio per il settore automotive.

Appesi a un filo, sembrerebbero invece essere i lavoratori della Bosch di Bari, l’impianto più grande del segmento automotive pugliese, con 1.720 addetti, che in base a una vertenza aperta nel 2019, minaccia il licenziamento di oltre 500 dipendenti.

Le bugie sulla produzione

Dopo una vertenza durata 26 mesi, la regina degli elettrodomestici, Whirlpool, ha deciso di chiudere definitivamente la fabbrica di via Argine, a Napoli, avviando la procedura di licenziamento per 340 operai. La decisione è stata annunciata il 13 luglio dall’amministratore delegato della multinazionale, Luigi La Morgia, che ha rifiutato categoricamente la proposta avanzata dal ministero  di prorogare la cassa integrazione per ulteriori 13 mesi, in attesa di trovare un acquirente o una soluzione più moderata. Di contro, ha “offerto” agli operai di trasferirsi nella sede di Cassinetta di Biandronno, in provincia di Varese, oppure ricevere un incentivo di 85mila euro per chi deciderà di lasciare l’azienda. Offerte poi smentite, secondo quanto raccontato dai lavoratori, all’indomani del tavolo.
Il 22 luglio, centinaia di lavoratori campani sono arrivati a Roma per partecipare allo sciopero nazionale indetto dai sindacati confederali. Il corteo, partito da Termini è arrivato in via Molise, sotto la sede del Mise, dove una delegazione di nove rappresentanti è stata ricevuta dai viceministri dello Sviluppo Alessandra Todde e Gilberto Pichetto Fratin. Venerdì, Invitalia, secondo quanto dichiarato da Rosario Rappa, segretario generale della Fiom-Cgil Campania, avrebbe fatto un sopralluogo nella fabbrica chiusa dal 31 ottobre 2020, per verificare la veridicità della versione raccontata della multinazionale americana circa l’«inadeguatezza» dei lavoratori, ritenuti da Whirlpool «non più competenti». In settimana è atteso un altro tavolo tecnico al Mise alla presenza di Invitalia, per impedire all’azienda di delocalizzare la produzione sbarazzandosi degli operai, andati bene per 30 anni consecutivi.

Dopo Whirlpool, il 22 luglio, l’Embraco di Riva di Chieri, in Piemonte, ha annunciato il licenziamento collettivo per 400 lavoratori. L’azienda che produce compressori per frigoriferi e che già a inizio 2018 aveva annunciato il trasferimento della produzione in Slovacchia, ha scritto la parola fine sulla vertenza dopo il fallimento dell’ennesimo tavolo organizzato al Mise, durante il quale non si è trovato un accordo sulla proroga della cassa integrazione. I lavoratori, però, sostenuti dai sindacati, continuano a lottare, tra scioperi e presidi davanti allo stabilimento.

La Focus srl di Sedico, in provincia di Belluno, i licenziati sono stati tre, su un totale di quattro dipendenti. I lavoratori dell’azienda produttrice di cucine si sono visti recapitare l’avviso di licenziamento all’indomani dell’approvazione del decreto sullo sblocco, dopo aver contribuito per oltre 25 anni agli utili aziendali.

Oltre agli elettrodomestici, sembra essere in crisi anche il settore dei detersivi. Nella pianura brianzola, a Lomazzo, c’è infatti una multinazionale tedesca che si occupa di produrli. È la Henkel, che per chiudere lo stabilimento e mandare a casa 81 dipendenti non ha neppure aspettato che il decreto legge entrasse il vigore, avviando la procedura il 30 giugno.

La cessione dopo cent’anni

Sempre il 1° luglio, dopo tre mesi interminabili di scioperi, presidi e paura, 188 lavoratori delle officine meccaniche Giovanni Cerutti sono stati licenziati. Non solo, i lavoratori si sono visti negare anche i salari arretrati di aprile, maggio e giugno. La Cerutti ha lasciato il posto alla Bobst, multinazionale elvetica, che ha chiuso la compravendita a 6,2 milioni di euro. La centenaria produttrice di tipografie ha scritto così le battute finali della sua storia, nel peggiore dei modi possibili.

Alitalia non decolla

Dopo sette mesi di trattativa con la Commissione europea, il 15 luglio il governo ha accettato di dire addio ad Alitalia per far spazio alla nuova compagnia Ita. Purtroppo, però, quella che in apparenza potrebbe essere una notizia «positiva», come l’ha definita il presidente del Consiglio Mario Draghi, nasconde ancora una volta migliaia di licenziamenti.

Attualmente, infatti, Alitalia dà lavoro a 10.106 dipendenti, la nuova Ita, invece, che decollerà ufficialmente il prossimo 15 ottobre partirà con appena 2.800 impiegati. Questo significa che 7.300 dipendenti andranno in esubero, rischiando il proprio posto di lavoro, grazie a una scelta, forse affrettata, dello stesso governo che promette di trovare soluzioni alternative per proteggere i lavoratori licenziati dalle multinazionali estere

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