Mosca, vacanze di Natale 2015, interno notte. Odore di pel’meni nell’aria. Un plotone di guerrieri Jedi mangia con soddisfazione i tradizionali ravioli russi conditi con salsa allo yogurt e funghi saltati, le spade laser appoggiate alla parete rischiarano la camerata dell’ostello nel centro della città. Guglielmo Sartor ha appena finito di cucinare e sta impiattando. Il suo compagno di viaggio, Cameron Starr, filma la scena con la telecamera.

Poche ore prima hanno visto il video del duello tra un Jedi e un Sith che combattono nel centro di Mosca. Starr, di Philadelphia, è cresciuto con i film di Star Wars. Deve trovare quei due guerrieri assolutamente. Escono con il buio, meno dieci gradi, ma la ricerca dà i suoi frutti: oltre ai protagonisti del video incontrano un’intera scuola che pratica lightsaber fencing.

Sartor e Starr vogliono sapere tutto su di loro, li invitano all’ostello: in cambio, un piatto di pel’meni fumanti.

Quest’incontro bizzarro, che può sembrare surreale, è da tre mesi la routine dei due viaggiatori. Da quando hanno lasciato Merate, paese in cui Sartor è cresciuto, per raggiungere Singapore via terra, con ogni mezzo e un’idea semplice a guidarli: cibo in cambio di storie. Piatti cucinati da Sartor, cuoco con esperienze nei ristoranti stellati di mezza Europa, e ripagati dal racconto di vita dei loro ospiti, registrato dalla telecamera di Starr, professione filmmaker.

A Mosca stimano di avere ancora sei mesi di cammino all'orizzonte. Non sanno che dopo Singapore li attende un’odissea di 8mila chilometri nei recessi dell’India, e un ritorno verso l’Europa in tuk-tuk, fino a Berlino. Dove l’apecar, adibita a food truck, diventerà casa e posto di lavoro in una spiaggia sulle rive del fiume Sprea.

Cercare le persone

Un’idea, la loro, che gli permette di incontrare persone di ogni tipo e di conoscere storia e cultura anche in quei luoghi che sembrano averla dimenticata, a causa del turismo di massa. «A Santorini abbiamo incontrato Craig Walzer, che come noi ha avuto un’idea folle. È in vacanza nell’isola con gli amici, finiscono i libri da leggere e non ci sono librerie che ne offrano di interessanti. Bicchieri di vino, martelli e sogni. Decidono di costruirne una loro. Si chiama Atlantis books ed è un luogo meraviglioso, che trasuda passione», racconta Sartor. «Per soddisfare i turisti affamati l’isola importa ogni tipo di genere alimentare, ma non mi sono dato per vinto. La terra vulcanica di Santorini è fertilissima, ho cercato i contadini e per Craig ho preparato un piatto a base di pollo, frutta secca, erbette e vino. Tutti ingredienti locali».

Nello stesso mare Egeo, ad Amorgos, un panorama completamente distinto. Un tempo l’isola era ricoperta da una foresta di querce, ma un’incendio l’ha distrutta completamente. Oggi solo pochi alberi restano in piedi. Dodici per l’esattezza, come il pantheon delle divinità greche. «Qui abbiamo incontrato Lonaïs Jaillas, francese, esploratore, ballerino, cantante, scrittore, che dopo aver girato il mondo intero ha scelto questa lingua di terra come casa. Ogni volta che può, raccoglie le ghiande degli alberi superstiti e le pianta in giro per l’isola», ricorda Starr. «Ci ha detto di essere consapevole che non si riposerà mai all’ombra di uno degli arbusti che gli devono la vita, ma non pensa al risultato finale quando porta avanti la sua missione». E aggiunge: «Con lo stesso amore disinteressato Guglielmo gli ha cucinato un cosciotto di capretto stufato con le ghiande, delizioso, con un sapore che ricorda la castagna e il tartufo. Offrire del buon cibo è un passepartout per entrare in connessione col prossimo. Trasporta le persone a casa, le fa sentire a proprio agio. Peccato che non lo insegnino nelle scuole di cinema».

Entrambi confermano che nonostante il rapporto fraterno che li lega, la loro relazione in viaggio è stata turbolenta. «Discutevamo su ogni cosa», scherzano. Ma almeno su questo punto Sartor è d’accordo: «Offrire da mangiare è il gesto più bello che puoi fare nei confronti di qualcuno. Uomo o animale. Oggi il cibo abbonda in occidente, e non ce ne rendiamo più conto. Ma per centinaia di migliaia di anni siamo stati una specie costantemente morsa dalla fame. Nessuno si sarebbe mai permesso di rifiutare del cibo. Questa memoria sopravvive nei nostri geni e noi l’abbiamo sfruttata per la nostra avventura».

Gli incontri preferiti

Una leva che ha funzionato a prescindere dal fuso orario o dalla lingua parlata. Uno degli incontri preferiti Sartor l’ha fatto a Shanghai, con il Maestro. Una personalità talmente riverita nella sua comunità da non avere nemmeno bisogno di essere chiamata per nome. «Lo abbiamo incontrato nel primo fab lab nato in città, un luogo in cui i giovani possono giocare e sperimentare con circuiti e microchip. Lui, professore di liceo, ci portava gli studenti per insegnargli a pensare in modo indipendente. Trovava il sistema educativo cinese, rigido, mnemonico», ricorda Sartor. «Purtoppo per lui ho cucinato uno dei miei fallimenti culinari. Maiale in salsa d’arachidi, ma ho sbagliato i tempi, è venuto gommoso, immangiabile». E prosegue: «Il maestro ha cominciato a lavorare in fabbrica a 13 anni, da autodidatta è diventato uno scienziato, esperto di tecnologia, un inventore. Nella sua esperienza di vita c’è la trasformazione del secolo. Il risveglio del drago cinese».

Forse per davvero o forse per il solo piacere di dare contro al suo compagno di ventura, Starr ha trovato il suo eroe, a suo modo pioniere di una trasformazione sociale, mille chilometri più a sud e a cento miglia nautiche dalla costa del Fujian, oltre lo stretto di mare più caldo del pianeta. Sull’isola di Taiwan. «Ho incontrato Isaac Hou a Taipei, anche se è cresciuto in New Jersey, vicinissimo a dove sono nato. Un’artista circense che è tornato sull’isola per riconnettersi con la terra d’origine della famiglia. Qui si è accorto che l’arte di strada mancava, ha cominciato lui. Multa dopo multa ha battuto il sistema: le autorità gli hanno riconosciuto un permesso per esibirsi e lui ha chiamato a rapporto i busker di mezzo mondo. Oggi Taiwan è la capitale asiatica dell’arte di strada».

Tuk-tuk indiano

È nell’ultimo tratto attraverso il Sudest del continente che gli zaini si fanno sempre più pesanti. «Con 30 chili sulle spalle ci sentivamo como Frodo Baggins e Sam Gamgee. Non li sopportavamo più. E così, nella terra in cui la Piaggio ha delocalizzato la sua produzione di apecar cominciamo a pensare di comprare un tuk-tuk», racconta Sartor.«Ma siamo arrivati a Singapore con 50 dollari in tasca», ricorda Starr.

Anche in questo caso il cibo è la chiave. Organizzano cene con proiezione, in cui gli ospiti possono gustare le ricette che hanno ideato in viaggio e godersi le immagini spettacolari della loro avventura. I soldi per il tuk-tuk arrivano, ma l’unico posto in cui possono comprarlo, afferma la burocrazia asiatica, è l’India. Sono di nuovo in partenza.

«Lo stato del Maghalaya, stretto tra Buthan, Myanmar e Bangladesh è la Scozia dell’India. Piove sempre», scherza Sartor. «Qui abbiamo aperto un ristorante in memoria del padre di una cara amica. A La Bohemienne et les amis offrivamo sia un menù vegano e crudista, che i miei piatti forti. Ci abbiamo lavorato per qualche mese e con i guadagni abbiamo trasformato il nostro tuk-tuk nel castello errante di Howl. Una cucina, uno spazio in cui dormire, un angolo per editare i video. Tutto su tre ruote».

È così che è cominciato un nuovo capitolo del loro peregrinaggio. Nove mesi in cerca di un modo per uscire dal subcontinente, ma senza mai riuscirci. La maledizione dell’India, secondo Sartor: «Appena arrivato a Calcutta ho mormorato “questo posto non mi piace per niente”, e sono convinto che l’India mi abbia sentito. È stato tutto molto complicato, eravamo stanchi, venivamo respinti alle frontiere e in più agli indiani il mio cibo non piaceva».

Filosofia popolare

Eppure l’esperienza indiana ha influenzato profondamente la visione della cucina di Sartor, che aveva come riferimenti i blasonati ristoranti europei. «Per anni mi hanno insegnato che il buon cibo è sinonimo di lusso. Uno strumento con cui si possono fare molti soldi. Ma dopo aver cucinato per così tante persone, per strada, negli slum, non me la sento di far pagare un piatto 40 euro. La cucina, anche quella alta, deve essere popolare», commenta. «Il vero costo di alcuni piatti ricercati, a base di ingredienti esotici, che vanno di moda, a volte è l’estinzione di una specie, tonnellate di CO2 immesse nell’atmosfera. In questo caso il prezzo giusto sarebbe qualche migliaio di euro a porzione, ma non potrei mettermene in tasca comunque più di venti, con il resto dovrei piantare alberi».

La parentesi indiana ha trasformato profondamente anche il rapporto di Starr con il cibo, da sempre ridotto ai minimi termini imposti dalla sopravvivenza. «Trovavo la cultura foodie decadente. Un modo elegante per affogare i problemi nel cibo. Per quello l’ho sempre considerato alla stregua di un carburante, senza farmi troppe domande sul suo sapore, ruolo o significato». E ricorda: «In un centro per rifugiati tibetani a Darjeeling ho mangiato i momo, dei ravioli ripieni di carne e verdura cotti al vapore, perfetti per essere conservati in viaggio. Un anziano mi ha raccontato che da bambino, mentre fuggiva dal suo paese, aveva le tasche piene di quelli della madre: gli hanno dato la forza necessaria per attraversare l’Himalaya. Al campo li mangiano ancora. E ogni giorno queste persone vedono la storia del loro popolo, in un piatto. Mi sembra qualcosa di estremamente potente».

Inseguendo un’utopia

Grecia, Russia, Cina, Taiwan, India. Quelle raccontate sono solo alcune delle centinaia di storie che Starr e Sartor hanno raccolto in un viaggio durato più di due anni. Da Merate a Singapore e da Shillong a Berlino. Cinquanta di queste sono raccolte in un libro, The vagabond cookbook, un ricettario che parla di vita e che sarà pubblicato in inglese a settembre.

E la scrittura è stata un’ulteriore occasione per affinare la sensibilità di Sartor. Un’esercizio che lo ha aiutato a liberarsi ancora di più dal “gastronazionalismo” che alberga in ognuno di noi. «È quell’arroganza che ci fa credere di essere detentori di una verità molto semplice: il mio cibo è migliore del tuo, la mia cultura culinaria è superiore. Emergeva ogni volta che parlavo di cibo, soprattutto con Cameron», spiega. «Mettendo a posto le ricette ho cercato di mettere da parte il mio ego, concentrandomi su chi avevo davanti. La sua cultura, la sua religione, le sue allergie. Il bisogno di mangiare ci accomuna, ma il desiderio cambia da persona a persona. Ho cercato di rispettarlo».

Sentimentale è l’aggettivo che secondo Starr meglio descrive il ricettario. Non solo perché racchiude un pezzo della sua vita, ma perché parla di un tempo secondo lui molto più lontano rispetto ai cinque anni trascorsi dall’arrivo a Berlino. Quando viaggiare era ancora relativamente facile, e il concetto di avventura evocava in lui archetipi letterari ben rodati. «Come un duo in carne e ossa siamo partiti seguendo le orme degli eroi che ci hanno ispirato, al cinema e nei libri. Da Guerre stellari a Don Chisciotte e Sancio Panza, e indietro, fino a Ulisse. Ma credo che ne siamo usciti molto diversi», riflette. «Ho capito che non voglio assomigliare a Ulisse. Un uomo che pensa solo a sé stesso. Che uccide dei poveretti che hanno cercato di tenere compagnia alla moglie durante i suoi anni d’assenza. Il prototipo del macho, insomma. Ecco credo che con tanta fatica gli uomini della mia generazione stiano cercando di allontanarsi da questo modello». E conclude: «I momenti più esaltanti sono stati quelli di condivisione, di sintonia totale con il prossimo. Quando raccontando storie siamo riusciti a far sentire eroi persone ordinarie come noi».

Succede anche cucinando, secondo Sartor: «Possono cambiare gli ingredienti, per via di territorio e clima, le tradizioni, la religione. Ma più esploro altre cucine, più ho la sensazione che alla base della cultura culinaria umana ci sia una sorta di intelligenza collettiva. Si adatta a seconda del contesto, ma le somiglianze sono maggiori delle differenze». 

Con il primo libro non ancora pubblicato già pensano al secondo viaggio, da fare al più presto. E se gli chiedi se in fondo non stiano inseguendo un’utopia, rispondono di sì senza esitare. Hanno assaggiato i pel’meni in Russia, i manti in Turchia, i jiaozi in Cina e i momo tibetani. E secondo loro sono tutti ravioli.

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