Sicilia e Sardegna sono le regioni più militarizzate d’Italia tra basi e poligoni militari, ma per il governo non è abbastanza. Ultimamente si sta assistendo a un rafforzamento anche del settore industriale bellico, presentato ancora una volta come la soluzione migliore per il rilancio dell’economia. Una narrazione che non regge alla prova dei fatti, ma che il governo attuale – in linea con quelli precedenti – utilizza per giustificare l’aumento delle spese militari e la scelta di puntare sull’industria bellica a scapito di quella civile.

Basi, poligoni e industrie

Quando si parla di basi militari in Sicilia il primo nome che viene in mente è quello di Sigonella, ma il loro numero sale se si considerano anche quelle messe a disposizione in base agli accordi dell’Alleanza atlantica e le infrastrutture concesse, sempre in uso, agli Stati Uniti.

Un quadro non molto diverso da quello che troviamo in Sardegna, in cui quasi 38mila ettari di territorio sono militarizzati. Il 65 per cento del demanio militare italiano si trova infatti sull’isola, compresi i poligoni di Teulada e Salto di Quirra, i più grandi d’Europa. La militarizzazione di Sicilia e Sardegna comporta problemi ambientali enormi e l’interdizione di intere aree, con conseguenze negative sulle attività locali e sull’economia delle due isole.

Eppure per il governo la soluzione migliore per aumentare i posti di lavoro sembra essere proprio quella militare, in continuità – almeno in parte – con gli esecutivi precedenti. A cominciare dai cantieri navali di Palermo. A gennaio, nello stabilimento di Fincantieri è stata varata la Al Fulk, un’unità anfibia realizzata per la Marina del Qatar nonché la prima nave completa uscita dai cantieri del capoluogo siciliano dal 2009 a oggi. Da metà maggio lo stabilimento ospita anche la portaerei italiana Cavour, arrivata da Taranto per dei lavori di manutenzione.

Ma il filone militare dei cantieri palermitani non si ferma qui: a dicembre dovrebbe arrivare anche la Trieste, sempre per lavori di manutenzione. Il destino della cantieristica di Palermo però può essere ancora riscritto. Fincantieri ha una forte vocazione militare, ma la regione Sicilia punta anche sulla costruzione e l’ammodernamento dei traghetti, settore civile che garantirebbe ingenti ritorni economici per l’economia locale.

L’isola però potrebbe anche ospitare a breve il sito industriale in cui verranno costruiti i carri armati tedeschi Leopard 2 che il governo ha intenzione di acquistare da Krauss-Maffei Wegmann e Rheinmetall. L’accordo, il cui valore oscillerebbe tra i 4 e i 6 miliardi di euro, fa parte del programma di riarmo avviato in risposta alla guerra in Ucraina e con cui l’esecutivo punta a rafforzare le forze corazzate italiane. Al momento la sede di realizzazione dei Leopard 2 non è stata ancora decisa, ma l’attenzione si è diretta verso l’area dell’ex Fiat di Termini Imerese e più in generale sulla Sicilia, che può contare sui sgravi fiscali e incentivi per i nuovi insediamenti garantiti dalla Zona economica speciale unica del sud.

La Sardegna

L’idea di usare l’industria militare per risollevare le aree più povere del paese non è certo nuova. In Sardegna, nella zona del Sulcis, questo compito è stato affidato alla RWM, branca italiana della tedesca Rheinmetall. La fabbrica di bombe dà lavoro a circa 300 persone e solo di recente sta cercando di aumentare il numero di impiegati grazie alle nuove commesse garantitegli dalla guerra, al ripristino dell’export verso gli Emirati Arabi voluto da Giorgia Meloni e all’accordo siglato con l’israeliana UVision.

L’azienda fabbrica munizioni per i cannoni semoventi e per i Leopard 2 usati da Kiev, ma si occupa adesso anche della realizzazione di alcune componenti dei droni kamikaze Hero 30, in dotazione anche alle forze armate italiane. Oltre all’Italia, altri due stati europei hanno scelto di acquistare i velivoli senza pilota israeliani e tra questi vi è l’Ungheria, unico paese dell’Ue a non aver preso una posizione netta contro la Russia ma che sta ugualmente usando la guerra in Ucraina come giustificazione per la corsa al riarmo.

Una sola azienda però non è sufficiente per risollevare le sorti di un territorio particolarmente povero come quello del Sulcis-Iglesiente. La Rwm tra l’altro ha subìto un danno considerevole dallo stop all’export verso Emirati e Arabia Saudita imposto dal governo Conte II e al momento deve fare i conti con una sentenza del Consiglio di stato che ha sancito la non regolarità dell’ampliamento dello stabilimento.

Un’occasione mancata

In generale, puntare sul settore della Difesa per il rilancio dell’economia è una scommessa persa.

Il settore bellico-industriale, secondo i dati del Centro studi internazionali relativi al 2019, raggruppa lo 0,21 per cento (1 per cento nel caso dell’indotto) di tutta la forza lavoro italiana, numeri lontani dalla narrazione di comparto strategico costantemente promossa da governo e aziende.

A confermarlo è anche il sindacalista Gianni Alioti, che analizzando per Archivio Disarmo gli ultimi 40 anni di sviluppo dell’industria aeronautica, sottolinea come il settore sia passato da 579mila a poco più di 537mila occupati, nonostante i profitti delle stesse imprese siano più che triplicati. Mentre i lavoratori del settore militare diminuivano, sono invece cresciuti quelli del comparto civile, passati da 197mila ai quasi 363mila nel 2022.

A questo processo, però, l’Italia ha partecipato ben poco. Mentre in Francia, Germania e Spagna, la crescita del settore civile ha compensato il calo degli occupati in quello militare, in Italia si è perso il 50 per cento di posti di lavoro nel settore aeronautico militare a fronte di una crescita molto bassa nel campo dell’aeronautica civile.

Anche questo governo però sembra puntare sul comparto militare per risolvere i problemi economici e occupazionali dell’Italia, nonostante i dati e una legge – la 185 del 1990 – che prevede una riconversione delle industrie belliche a oggi scarsamente attuata.

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