Questa storia, storia infinita di finti ingenui e di furbi intrallazzatori, comincia un giorno qualsiasi di un anno qualsiasi dell’ultimo decennio nell’aeroporto di Fiumicino. I frequentatori dello scalo nazionale ricorderanno che, arrivati in cima alle scale mobili, si trovavano davanti a una teca di vetro grande come mezzo schermo di cinema, piantata esattamente al centro del passaggio obbligato per tutti i gate. Dentro quella teca, illuminata a giorno come la Gioconda, c’era una bicicletta. E su quella bicicletta, a caratteri dorati, c’era scritto il nome del produttore: Antonello Montante.

La bufala delle bici

Perché una delle cento graziose elargizioni che il paese aveva offerto al cavalier Montante (prima che la sua stella precipitasse per ragioni giudiziarie) era proprio l’ospitalità di quella sua bicicletta nelle sale più importanti degli aeroporti italiani, un assaggio di arte strutturalista sotto vetro che serviva a dare lustro e pubblicità alla famiglia del suddetto Montante. Che in realtà (ecco i finti ingenui, ecco i furbi intrallazzatori) non ha mai prodotto biciclette: né il nonno, né il padre e nemmeno lui, l’Antonello. Era una bufala, inventata ad arte e resa credibile da una servizievole narrazione giornalistica e letteraria.

Montante aveva fatto semplicemente assemblare un centinaio di esemplari, metà disseminata negli aeroporti italiani e l’altra metà offerta come prezioso cadeau a questori, scrittori, ministri, prefetti, opinionisti, veline e presidenti. Punto.

Perché cominciare questo viaggio nel potere furbo e corrotto dall’aneddoto sulla bici di Montante? Perché quella bici racconta perfettamente questo tempo, ossia un tempo in cui ciò che importa non sono i fatti ma la loro rappresentazione. E più quella rappresentazione è manifestamente bugiarda, più rischia di diventare credibile. Come si spiegherebbe altrimenti la straordinaria parabola d’onori al merito di Antonello Montante, indicato come campione d’ogni antimafia prima di essere tradotto in giudizio per complicità con i mafiosi?

Prima di tutto la narrazione

Senza questa accortezza – autocertificazioni di santità, narrazioni addomesticate, mitologie fatte in casa come i mobiletti dell’Ikea – il sistema Montante sarebbe rimasta una storia di provincia, roba da parrocchie di Regalpetra (un industrialotto di paese che aveva messo in piedi una rete di intrallazzi pubblici e privati per procacciarsi favori, appalti e impunità). Storia peraltro già archiviata con quell’esemplare condanna a quattordici anni di reclusione in rito abbreviato che Montante oggi sta scontando in una dimora di famiglia. Insomma, sipario e avanti un altro.

Invece no. Per più ragioni. Che qui proveremo a spiegare e che rendono la vicenda di Antonello Montante (il più giovane Cavaliere del lavoro in Italia, vicepresidente nazionale e responsabile legalità di Confindustria, membro illustre del direttivo dell’Agenzia per i beni confiscati alle mafie, titolare di un’altra dozzina di prebende, incarichi e magnifiche onorificenze generosamente elargite dalla Repubblica italiana) uno straordinario spaccato di come si possa costruire e insediare nella carne viva delle istituzioni un corpo estraneo, una sorta di governo parallelo che determina, governa e dispone anche sui ruoli apicali del paese.

Governo verticale

Anzi, come dice bene nella motivazione la sentenza di condanna del gup di Caltanissetta, un «governo verticale», nel senso che attraversava tutti i livelli gerarchici del paese e delle istituzioni, dalla direzione del servizio segreto interno (l’Aisi) al ministero dell’Interno (nella persona del ministro, ça va sans dire), dagli uffici giudiziari di mezza Sicilia a questure e prefetture di mezza Italia, dai vertici regionali della Guardia di finanza agli investigatori della Direzione investigativa antimafia, dalla presidenza della regione Sicilia ai magistrati della Direzione nazionale antimafia e così via. Altrimenti perché lo avremmo chiamato sistema? Che è appunto parola dal significato plurale, destinata a raccogliere comportamenti, complicità e protezioni che vanno ben oltre il destino del singolo personaggio.

Una certa antimafia

Nelle modalità di quel sistema, nella spregiudicata capacità di interferire e di condizionare gli assetti, gli apparati e gli indirizzi della vita pubblica (dal governo della regione alla sicurezza nazionale) c’è tutta la pericolosità di una lobby che s’è fatta potere autonomo, impunito, irriducibile. Cosa ancor più imbarazzante è che la lobby di cui parliamo era quella dell’antimafia. Precisiamo: d’una certa antimafia, autoreferenziale, picaresca, lamentosa, arrogante, piena di pennacchi e medaglie di latta, sirene spiegate e comparsate televisive.

Perché il cavalier Montante è stato tutto questo e molto di più, come i personaggi di certi fumetti d’anteguerra, Tartarin di Tarascona che abbatte a fucilate il temibile leone cieco di un circo, il Barone di Münchausen che racconta i suoi assalti a cavalcioni di una palla di cannone.

Un abile cantastorie

Imprese all’apparenza innocue fanfaronate, se non fosse che attorno al numero due Confindustria (nonché presidente di Unioncamere Sicilia, consigliere di amministrazione del Sole 24 Ore, componente del consiglio di territorio di Unicredit Sicilia, membro del comitato locale di sorveglianza della Banca d’Italia di Caltanissetta, piccola ma cazzutissima caput mundi all’epoca d’oro del Montante) s’era aggrumato un grumo di poteri e un manipolo di personaggi così avido, lesto e sfacciato da far ombra agli incappucciati della P2. Un sistema di governo privato della cosa pubblica, destinato a pilotare la spesa regionale e nazionale, a definire l’agenda di governo, a promuovere i funzionari fedeli e a cacciar via i riottosi, a controllare gli avversari e a compiacere gli amici curandone carriere, elezioni e promozioni. Sistema perfettamente collaudato che in Montante aveva solo l’abile cantastorie attorno al quale, e dietro il quale, avanzavano ministri, senatori, presidenti, assessori, prefetti, dirigenti. E naturalmente giornalisti.

Il ruolo della stampa

A che servono i giornalisti? Ve l’abbiamo detto, a proporre una narrazione tranquillizzante, un vestito della festa che nasconda le miserie, le malversazioni, gli inganni. Insomma, serviva qualcuno che sapesse scrivere, fabbricare il mito, tesserne le lodi. Per far questo non bastano ministri, prefetti e generali. Occorrono bravi giornalisti, obbedienti a scriver pezzi sotto dettatura telefonica, felici di farsi acquistare sulla fiducia mille copie di libri (che magari devono ancora scrivere), o semplicemente sedotti da un paio di notti in albergo pagate di tasca sua da Montante. A ciascuno di loro, in cambio, si chiedeva di un po’ di incenso nelle loro cronache dedicate al cavaliere.

Il ruolo della politica

Serviva anche la politica. E Montante, con il suo inner circle, fabbricava politica. Letteralmente. Era di sua “proprietà” l’assessorato alle Attività produttive della regione Sicilia, il più strategico, legato alle sorti e al futuro di ventimila aziende siciliane. L’assessore non era persona a lui vicina: era direttamente un suo impiegato, distaccato da Confindustria alla regione per continuare a obbedire al Montante fingendo di essere un assessore regionale.

Era di sua proprietà la burocrazia regionale, che veniva selezionata con provini a cui sottoporre i futuri dirigenti generali dell’assessorato direttamente nella villa di famiglia di Montante. Il cavaliere li interrogava, indagava sulla loro compatibilità e lealtà e poi emetteva il verdetto. E siccome delle chiacchiere non ci si fida abbastanza, alla fine del provino, al dirigente generale in pectore veniva fatto firmare un contrattino privato con cui il futuro alto burocrate s’impegnava a fare quello che Montante avrebbe preteso. Come in una rappresentazione del Faust di Goethe.

Il ruolo dei giudici

Servivano giudici, pronti a informare, avvertire e proteggere Antonello Montante sulle indagini in corso. Tra i sodali c’era perfino un magistrato della Direzione nazionale antimafia che passava le dritte a Montante attraverso i buoni uffici di Diego Di Simone, ex sostituto commissario a Palermo, assunto da Confindustria come responsabile della sicurezza (e condannato, assieme a Montante, a sei anni di reclusione). Esiste la trascrizione di una telefonata tra Montante e Di Simone in cui si parla delle rassicurazioni ottenute dal suo amico, magistrato della Dna sulle indagini siciliane nei confronti di Montante. In uno dei verbali di interrogatorio è lo stesso Montante a fare ai giudici di Caltanissetta nome e cognome del magistrato che informava il fidato Di Simone: eppure nessuna procura generale, nessuna sezione del Csm ha ritenuto di dover fare chiarezza. Meglio che di quel nome si perdessero le tracce, per il buon nome della ditta.

Servivano molti giudici. E dalle carte di Montante emergeranno una decina di nomi, tutti magistrati passati dagli uffici di Caltanissetta, tutti blanditi, corteggiati, favoriti, omaggiati dall’incontenibile ruffianeria del Montante. Il quale, una volta a processo proprio a Caltanissetta, ebbe a ricordare alla corte le sue frequentazioni con mezzo palazzo di giustizia. Avvertimento apparentemente non raccolto: quei quattordici anni di galera non sono pochi.

Spioni di rango

Infine, servivano spioni di rango. Anzi, del massimo rango, come il direttore dell’Aisi, Mario Parente, oggi indagato dalla procura di Caltanissetta per false informazioni al pm in un’indagine parallela a quella su Montante. La gup Graziella Luparello, che aveva condannato il Montante un anno fa, ha inviato alla procura di Roma i verbali delle testimonianze del capo dell’Aisi e del suo vice, Valerio Blengini. «Mentono sapendo di mentire», ha scritto la giudice nelle motivazioni della sentenza su Montante. Parole gravi ma inefficaci: nel giugno scorso Mario Parente è stato riconfermato per la terza volta alla guida dell’Aisi dal presidente del Consiglio, Giuseppe Conte.

Nessun abisso di corruzione

Non siamo di fronte ad abissi di corruzione, a giornalisti o politici comprati con bustarelle di contante o rimesse su conti all’estero.

Il “sistema Montante” rivela piuttosto la capacità di seduzione che il potere esercita a prescindere, senza nemmeno dover pagar pegno. A volte bastava un invito a pranzo nel roof garden dell’hotel Bernini: quei pochi selezionati avrebbero assaggiato il privilegio di essere ammessi a corte, seduti a tavola accanto a sua eccellenza il ministro, al rampante senatore, al signor generale. La vanità umana s’accontenta di poco.

Tutto schedato

Di questo sistema non avremmo saputo nulla se Montante, nella sua mania compulsiva, non avesse schedato, annotato e rigorosamente registrato ogni incontro, ogni pranzo, ogni telefonata, ogni richiesta ricevuta, ogni favore elargito. Una contabilità degli innominabili amici che si ritrovarono nominati, e sputtanati, quando durante una perquisizione sono saltate fuori le carte segrete di Montante. E si è scoperto che, dopo la sua imputazione per concorso mafioso (resa nota nel febbraio 2015), prefetti, ministri, senatori e generali hanno continuato a frequentarlo, a blandirlo, a proteggerlo.

Dove mai accade che un imprenditore accusato di un reato così grave venga ricevuto al Viminale per sette volte? Quando ne abbiamo chiesto il motivo all’allora ministro dell’Interno, Angelino Alfano, la risposta è stata lapidaria: «Io non credo che l’indagato sia un condannato». Nemmeno noi: ma un ministro dell’Interno che riceve per sette volte un indagato per mafia non rischia di delegittimare il lavoro dei magistrati che stano indagando? E i prefetti, i questori, i politici che gli si stringono attorno nonostante quelle accuse: a quale obbedienza sono tenuti? Che messaggio intendono mandare? Probabilmente nessuno di loro immaginava che Montante prendesse nota di tutto e su tutti, e che di ogni conversazione conservasse minuziosamente data, ora e oggetto. A buon rendere, come si dice.

È tutto finito?

Resta una domanda: il sistema è affondato assieme al suo creatore e alle bici che assemblava per farne omaggio ai potenti del paese? La risposta è no. Il vezzo di costruire luoghi paralleli e occulti in cui governare la cosa pubblica (che vuol dire spesa, denari, commesse, decisioni strategiche) resta il tratto distintivo di questa politica da terra di mezzo. Con gli stessi protagonisti chiamati a celebrare messa in nome di un’antimafia sempre più ridotta al brand del Grande fratello.

Nell’inchiesta sul business dei rifiuti in Sicilia, tre gigantesche discariche private in cui si conferisce il 90 per cento dei rifiuti dell’isola al modico costo di 300 milioni l’anno, sullo sfondo di funzionari regionali corrotti, assessori compiacenti e presidenti distratti si ritrovano gli stessi personaggi che abbiamo incrociato seguendo le tracce di Montante. Per esempio il Richelieu che ha tenuto a battesimo il governo di Rosario Crocetta, che ha sponsorizzato per anni le gesta del cavalier Montante, che ha accompagnato i padroni dei rifiuti alla conquista della regione è un ex senatore della Repubblica: Beppe Lumia. Riceveva nella stanza accanto a quella del governatore, decideva i nomi degli assessori, vigilava sul mito antimafioso di Confindustria Sicilia.

Da allora, poco è cambiato all’ombra di quei palazzi. A parte il cavalier Montante, che la sta pagando per tutti.

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