Non sempre spendere di più significa spendere bene ottenendo il meglio. E’ una regola aurea che a maggior ragione vale per le spese militari. Ora in ballo c’è l’incremento fino al 2 per cento del Pil delle spese di ognuno dei 30 paesi Nato, a cominciare da quelli europei.

In Italia il cambiamento sta provocando contraccolpi politici gravi e la polemica è diventata così aspra da mettere in discussione la sopravvivenza del governo. I vari protagonisti si schierano a prescindere da quello che dovrebbe essere l’obiettivo, cioè la creazione di maggiore sicurezza dopo l’assalto della Russia all’Ucraina.

Il 2 per cento di per sé non è il toccasana, bisogna vedere come quei soldi in più vengono impiegati. In Europa dove non esiste una difesa comune, ma ci sono 27 eserciti, 23 forze aeree e 21 forze navali, il rischio è che le ingenti risorse pubbliche aggiuntive, inevitabilmente sottratte ad altri scopi civili (la sanità, l’istruzione, i trasporti etc…), più che l’efficienza della difesa europea finiscano per alimentare spese inutili perché ridondanti e ripetute. In una parola: sprechi.

I paesi dell’Unione europea già ora spendono molto per la difesa: la somma dei bilanci militari nazionali è circa tre volte e mezzo superiore al totale russo, 227,8 miliardi di euro contro 66,9. Ma mentre la Russia è una minacciosa potenza militare, la difesa dell’Europa è assai meno efficace perché rammentata.

Enorme sacrificio

Con queste premesse l’incremento di spesa fino al 2 per cento comporta il rischio che  molti soldi saranno inevitabilmente spesi male perché obbligati in un contesto per sua natura inclinato verso lo spreco. Solo il cambio del contesto di riferimento che può rendere efficace l’incremento di spesa militare e il contesto nuovo è la creazione di una difesa comune, un obiettivo che l’Europa si pone da un trentennio senza grande successo.

Non va in direzione di una difesa comune la decisione della Germania del cancelliere Olaf Scholz di aumentare in un colpo di 100 miliardi di euro le spese militari. E’ una scelta che conferma l’idea che ogni paese europeo debba fare da sé. La costituzione di una difesa comune andrà inoltre inevitabilmente a impattare con gli interessi specifici delle industrie della difesa di ogni singolo paese.

C’è da chiedersi, come fa in un suo recentissimo dossier l’Istituto di ricerche internazionali Archivio disarmo, se per esempio, constatato che i 17 tipi attuali di carro armato sono un controsenso per una forza armata unica europea, l’Oto Melara italiana, la francese Nexter che produce il Leclerc, o la Krauss-Maffei Wegmann che produce il Leopard, sarebbero disposte ad arrivare a un unico MBT (Main Battle Tank) come l’ipotizzato MGCS (Main Ground Combat System). Chi lo produrrebbe alla fine? Chi sarebbe escluso?

In ballo ci sono interessi enormi. Come ha accertato il servizio studi della Camera, in Italia negli ultimi anni le spese per le armi in senso stretto sono aumentate in modo considerevole e di questo aumento si sono avvantaggiate soprattutto le imprese nazionali.

Il Servizio studi ha calcolato che «la percentuale delle spese in conto capitale (per i sistemi d’arma ndr) passa dall’11,4 per cento del 2016 al 22,3 per cento del 2022», in termini assoluti quest’anno la spesa per armamenti sfiora i 9 miliardi di euro compresi i finanziamenti del ministero dello Sviluppo economico (Mise). Cosa cambierebbe per le industrie italiane con una difesa europea comune?

Rapporto con la Nato

Infine c’è il problema dei problemi: che rapporto ci potrà essere tra la difesa europea e la Nato a guida statunitense? A parole i governi dell’Unione assicurano che le due entità saranno complementari, ma la differenza è nei fatti e non solo perché dei 30 paesi del patto 29 sono in Europa, ma soprattutto perché, come scrive Archivio disarmo: «La leadership statunitense si muove nell’ambito di una sua proiezione strategica su scala globale, mentre l’Europa comunitaria ha un suo orizzonte relativamente più ridotto». L’ex capo di Stato maggiore della Difesa, Vincenzo Camporini, ha avvertito che «lo strumento militare europeo ha senso solo se al servizio di una politica estera comune».

L’11 marzo a Versailles i rappresentanti dei paesi europei hanno ribadito la volontà di costituire una difesa comune e qualche giorno dopo la presidente della Commissione europea, Ursula von Der Leyen, ha annunciato la costituzione di una forza rapida di pronto intervento militare composta da 5 mila uomini.

L’Ue ha stanziato 8 miliardi di euro nell’ambito del Fondo europeo per la difesa (2021-2027) per la ricerca e lo sviluppo di prodotti industriali militari. E la stessa Ue alcuni giorni fa ha stanziato altri 5,6 miliardi per il Fondo Epf (European Peace Facility) per le operazioni militari.

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