L'amministratore delegato di Autostrade per l'Italia (Aspi) Roberto Tomasi ha reagito da par suo alle rivelazioni dell'inchiesta della procura di Genova sulle barriere fonoassorbenti nei tratti liguri, che ieri ha portato a misure cautelari per l'ex numero uno Giovanni Castellucci, altri tre ex importanti manager e due dirigenti tuttora in servizio. Facendo finta di non essere anche lui tra gli indagati, ha rilasciato due interviste parallele, a Corriere della Sera e Repubblica, per sostenere che la brutta abitudine di gonfiare i profitti tagliando le manutenzioni sui 2854,6 chilometri della concessione autostradale Aspi appartiene al passato. Da quando è stato cacciato Castellucci, cerca di farci credere Tomasi, la brutta pagina è stata voltata. Come se Castellucci facesse tutto da solo. Ma è chiaro che il capro espiatorio è sacrificato alla riverginazione del gruppo Atlantia e dei suoi interessi.

Tomasi mente. E come lui mente il ministro delle Infrastrutture Paola De Micheli. Mentono entrambi, come adesso vedremo, con un obiettivo comune: salvare la trattativa impossibile tra Atlantia (la holding che controlla Aspi) e il governo per chiudere l'incidente Morandi. Mentono entrambi per continuare a non parlare del vero nodo: la redditività di Aspi. Che la famiglia Benetton e i suoi ambasciatori, capitanati dall'amministratore delegato di Edizione holding Gianni Mion, vogliano mettere in salvo il malloppo non sorprende. Risulta più difficile comprendere perché mai il governo cerchi di dargli una mano, fingendo di punirli ma adoperandosi sottobanco per perpetuare lo status di gallina dalle uova d'oro di Aspi. 

Dal 1999 al 2019 Aspi ha distribuito dividendi per 13 miliardi, alla media di 600 milioni l'anno, attorno al 15-20 per cento del fatturato. Per essere la concessione di un monopolio naturale, senza rischio imprenditoriale e di mercato, è una redditività scandalosa. Ma nella trattativa tra De Micheli e Atlantia sulla dinamica tariffaria dei prossimi 18 anni (il cosiddetto Pef) si è addivenuti all'accordo che Aspi potrà distribuire agli azionisti 21 miliardi di dividendi, alla media di 1,16 miliardi all'anno, pari al 25 per cento del fatturato previsto. Quindi Aspi uscirebbe dalla strage di Genova del 14 agosto 2018, che ha provocato 43 morti, con un quadro regolatorio che fa esplodere la redditività, scaricandola sui pedaggi insieme all'indifferibile aumento delle manutenzioni.

De Micheli nega l'evidenza

L'intesa - che De Micheli disconosce e Atlantia rivendica - è saltata sul parere dell'Autorità di regolazione dei trasporti e ha costretto le parti a riaprire il tavolo negoziale. Parlando mercoledì alla Camera, De Micheli ha risposto a un'interrogazione di Stefano Fassina (Leu) con una bugia proprio a proposito del negoziato sul nuovo Pef (piano economico finanziario): «Questo snodo procedurale risponde unicamente a regole tecniche di carattere economico-finanziario e trasportistico e non influenza la trattativa riguardante gli impegni di Aspi ed Atlantia sul futuro assetto societario del concessionario». 

È vero il contrario: il Pef definisce la redditività di Aspi e quindi il prezzo che la Cassa depositi e prestiti potrà pagare ad Atlantia per l'88 per cento della concessionaria. Le società valgono quello che rendono, a meno che De Micheli non pensi che Cdp e Atlantia trattino il prezzo di Aspi al chilo, al metro quadrato o al metro lineare come se fosse un capannone industriale in mezzo alla pianura Padana.

La vera ragione che spinge De Micheli a sostenere teorie così astruse sulla valutazione di società quotate in Borsa (quale Aspi è da considerare di fatto, visto il suo peso dentro Atlantia) si può rintracciare nelle parole con cui ha spiegato al parlamento i suoi obiettivi nella trattativa sul Pef «che, ricordo ancora, è volta a garantire la piena realizzazione degli interessi pubblici connessi alle esigenze di consentire all’utenza di continuare a fruire dell’infrastruttura autostradale, di salvaguardare gli attuali livelli occupazionali, di effettuare nuovi e consistenti investimenti e di tutelare i risparmiatori».

Sembra quasi che si voglia far finanziare i nuovi investimenti ad automobilisti e autotrasportatori per tutelare i risparmi della famiglia Benetton, a meno che non risulti alla ministra una corsa di vecchiette e pensionati a togliere i loro soldini dalle Poste per mettere al sicuro il gruzzoletto in azioni Atlantia che forse dal 14 agosto 2018 appaiono a qualcuno un porto sicuro.

Se la bugia di De Micheli è talmente smaccata da non confondere più di tanto le idee, quelle che racconta Tomasi sono più subdole. «Da quando sono alla guida abbiamo rovesciato l'azienda come un calzino consapevoli della necessità di cambiamento», ha detto in una delle due interviste gemelle.

Poi dà i numeri del cambiamento: «Prima del mio arrivo l'azienda spendeva circa 270 milioni l'anno in manutenzioni. Nello stesso anno 2019 ho portato questa cifra a 400 milioni, nel 2020 dovremmo arrivare a 655 milioni, e le previsioni per il 2021 sono di 600 milioni». Lo dice chiaro: «Abbiamo raddoppiato le spese di manutenzione».

E non è vero. Anche Castellucci diceva che la manutenzione era impeccabile, perfetta, inappuntabile, negli anni gloriosi in cui Tomasi taceva sapendo che il suo capo mentiva. Tomasi sapeva che Castellucci tagliava le manutenzioni per far guadagnare di più i fratelli Benetton che così «erano contenti», quantomeno lo aveva già appreso quando ha rilasciato le due interviste.

Perché adesso il governo dovrebbe fidarsi di lui che è, come Castellucci, agli ordini dei Benetton? Anche l'automobilista e l'autotrasportatore vacillano: ammesso che le manutenzioni raddoppino, chi paga? In altre parole, le maggiori manutenzioni andranno a scapito dei profitti e dei dividendi? La risposta è no.

E siccome è anche falso che la spesa in manutenzione raddoppi, lo scenario che Atlantia e De Micheli stanno apparecchiando prevede una stangata tariffaria a quasi esclusivo beneficio dei dividendi per gli azionisti Aspi (Atlantia o Cdp che siano).

I numeri smentiscono Tomasi

Per aggirare il problema Tomasi agita un caleidoscopio di cifre incongrue. Nell'ultimo bilancio di Aspi ci sono scritte infatti cose diverse. A pagina 21 si legge che la spesa per manutenzione nel 2019 è stata di 300 milioni.

E che nei quattro anni 2020-2023 la spesa per manutenzione sarà di 1,7 miliardi in tutto. Quindi 2 miliardi in cinque anni, alla media di 400 milioni all'anno. Ma a pagina 6 del bilancio, nella «lettera agli azionisti», l'amministratore delegato scrive che questi 2 miliardi in cinque anni rappresentano un aumento della spesa in manutenzione del 40 per cento rispetto al quadriennio precedente.

Calcolatrice alla mano, le spese in manutenzione della tarda era Castellucci erano 357 milioni all'anno (a fronte di utili attorno al miliardo). Con la perestroika di Tomasi  passano a 400 milioni all'anno, con utili e dividendi in crescita. Lo dice il bilancio Aspi 2019.

Come si vede, Benetton, Mion, Tomasi, Atlantia, Aspi e De Micheli hanno trovato un punto d'accordo: non pronunciare mai la parola redditività. Come le intercettazioni dell'inchiesta genovese dimostrano, i manager di fiducia di casa Benetton, Tomasi compreso, ne parlano solo in privato, e si dicono anche un po' divertiti quello che in pubblico negano rabbiosamente.

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