Donna, 22 anni, «incinta di otto mesi e mezzo, presunto figlio di uno stupro nella prigione libica dove era detenuta, riferisce che le hanno ucciso il marito, presenta contusioni su tutto il corpo, riporta che sono lesioni da violenza in Libia». Donna, 50 anni, «stuprata più volte durante i nove mesi di detenzione in Libia (con la figlia). Segni di abusi fisici e maltrattamenti». Ragazza, 15 anni, «violenza fisica con segni e cicatrici osservabili sull’estremità superiori, riferisce di essere stata abusata durante i suoi 4 mesi di prigionia in Libia».

Ecco i nemici di Matteo Salvini. Quelli che l’allora ministro dell’Interno aveva deciso di colpire con la sua guerra personale alle ong e, nel caso specifico, alla spagnola Open Arms. Unico obiettivo: aumentare i propri consensi. Oggi il leader della Lega è a processo, oltre che per il caso della nave Gregoretti, anche per quello di Open Arms. La nave umanitaria, nell’agosto del 2019, è stata tenuta ferma in mare per venti giorni. A bordo 164 migranti tra i quali, come testimoniano i referti medici agli atti del procedimento, donne violentate, ma anche uomini, bambini e decine di altre donne. Tutte vittime dei campi libici e salvate nel Mediterraneo mentre al governo c’era l’alleanza gialloverde con Salvini comandante in capo del Viminale.

L’udienza palermitana nella quale i giudici valuteranno il rinvio a giudizio del leader della Lega è fissata per il 9 gennaio. L’accusa è sempre la stessa: sequestro di persona e omissione di atti d’ufficio. L’inchiesta coinvolge anche l’ex capo di gabinetto di Salvini, il prefetto Matteo Piantedosi.

Terroristi? Sì, forse, boh

Agli atti del processo sono stati depositati alcuni documenti, letti da Domani, che svelano la genesi della politica migratoria della Lega di Salvini. I testimoni sentiti dai magistrati sono funzionari e dirigenti del Viminale e dell’ufficio immigrazione. Gli atti ora confluiranno anche nel processo di Catania per il caso Gregoretti.

Emanuela Garroni, vice capo di gabinetto vicario del Viminale, il braccio destro di Piantedosi all’epoca, dice: «Avevamo avuto notizia che insieme agli immigrati che arrivavano via mare vi potessero essere dei soggetti pericolosi per la sicurezza pubblica, in particolare si faceva riferimento a un cittadino tunisino Anis Amri che era stato ucciso a Milano, dopo un attentato che aveva compiuto a Berlino, e che aveva fatto ingresso in Italia attraverso la frontiera di Lampedusa. Il fondamento del mancato rilascio del Pos (il porto sicuro di sbarco) era legato a una diffida all’ingresso in acque nazionali emesso per motivi di sicurezza dal ministro Salvini».

Un sospetto dettato da un fatto accaduto anni prima? Possibile? La dirigente conferma: «Preciso, che in ogni singolo episodio non veniva formalizzata alcuna istruttoria per accertare nello specifico se i migranti soccorsi dalla singola nave ong costituissero un concreto pericolo per la sicurezza pubblica. Il fondamento era l’analisi generale del fenomeno dell’immigrazione e clandestina». Garroni dunque ammette che a ispirare le misure restrittive adottate da Salvini non erano analisi approfondite, caso per caso, ma fatte sulla base di notizie generiche.

Salvini sapeva

Nello stesso verbale Garroni, a domanda dei magistrati se il ministro dell’Interno avesse contezza dello stato di salute dei migranti a bordo, risponde: «Ritengo di sì». Salvini sapeva dunque dello situazione limite, ma ha lasciato in agonia 164 persone disperate che avevano affrontato torture disumane e un viaggio massacrante.

Il ministro non poteva non saperlo. Le comunicazioni riservate arrivano nel suo ufficio, anche quelle del centro nazionale di coordinamento che il 15 agosto 2019, alle 14.44, comunicava «a tutti i destinatari della lista, alla reiterata richiesta di Pos (porto sicuro di sbarco), anche le condizioni igienico sanitarie critiche riscontrare dai sanitari del Cisom (Corpo sanitario dell’ordine di Malta) salito a bordo della Open Arms».

Fabrizio Mancini, primo dirigente servizio Immigrazione della polizia di stato, è stato sentito dai magistrati di Agrigento, che poi hanno inviato i verbali ai loro colleghi di Palermo: «Nel tardo pomeriggio di Ferragosto si è peraltro appreso che l’ammiraglio Martello della capitaneria di porto aveva interloquito con il capo di gabinetto del ministro, il prefetto Pianteodosi, informandolo della situazione sanitaria a bordo della nave».

A Piantedosi gli inquirenti hanno chiesto se avesse contezza, mentre rifiutavano il porto alla Open Arms, delle condizioni a bordo, la risposta è stata: «No, non ne avevamo conoscenza. Ritenevamo che fossero comunque valutazioni di competenza dello stato di bandiera, ossia la Spagna».

È ancora Mancini, con le sue parole, a fornire elementi decisivi per comprendere come si può creare dal nulla un’emergenza solo per fini politici: «L’esigenza di modifica delle procedure nasceva a seguito delle decisioni prese a un comitato Nazionale per l’ordine e la sicurezza pubblica, di fine 2018, in cui si prese atto che i numeri degli sbarchi erano calati, e l’orientamento politico era di considerare la gestione degli sbarchi un problema di immigrazione irregolare e sicurezza pubblica e non già un problema di ricerca e soccorso di vite umane in mare».

Tiziana Liguori dirige la seconda divisione del Servizio immigrazione. Nella testimonianza resa ai pm ha spiegato che da febbraio 2019, con Salvini all’Interno, «il nuovo orientamento politico era quello di consentire il rilascio del Pos, ove fosse di competenza italiana, soltanto dopo che si fossero attivate le interlocuzioni per la redistribuzione dei migranti tra i vari paesi dell’Unione europea...Tale nuovo orientamento era fatto notorio. Tale modalità venne formalizzata con il tavolo tecnico del 12 febbraio 2019. Era chiaro per i partecipanti che si facesse riferimento al gabinetto del ministro degli Interni, perché chiaramente era l’Autorità politica che ha la gestione del fenomeno dell’immigrazione, ritenendo importante un maggiore coinvolgimento e condivisione con le autorità europee».

Un tavolo dal quale sarebbe dovuto uscire un documento definitivo, ma che ha prodotto solo una bozza mai ratificata, come ha spiegato Mancini ai magistrati: «Dopo il tavolo tecnico del 12 febbraio 2019, per quanto ne so io, il comando generale della capitaneria di porto si era preso l’incarico di redigere una nuova procedura operativa standard. A oggi il comando generale della capitaneria di porto ha predisposto una bozza trasmessa anche alla mia direzione centrale con numero di protocollo che però non è stata ancora ratificata da tutti i soggetti istituzionali presenti al tavolo tecnico del 12 febbraio 2019».

In pratica scelte così delicate sono state prese sulla base di una bozza ispirata dal ministero ma mai ratificata. Mancini ha aggiunto che con il cambio di governo e l’arrivo del Conte 2, Piantedosi gli avrebbe rappresentato «la necessità di rivedere e codificare le procedure di assegnazione del Pos a seguito della modifica della compagine governativa del settembre 2019... non ricordo se tale richiesta, avanzata da Piantedosi, risalga a poco prima o poco dopo l’insediamento del ministro Lamorgese. Preciso che, per quanto a mia conoscenza, la suddetta richiesta avanzata da Piantedosi era informale, avvenuta nel corso di un incontro al ministero degli Interni».

La firma di Salvini

È noto e sarà al centro del processo sia sulla nave Gregoretti sia su Open Arms che Salvini accusa il presidente del consiglio Giuseppe Conte, l’ex ministro delle Infrastrutture, Danilo Toninelli, e la ministra della Difesa dell’epoca, Elisabetta Trenta, di aver condiviso con lui le scelte. Trenta e Toninelli, sostiene Salvini, hanno firmato con lui il provvedimento contro la concessione del porto a Open Arms.

Dagli atti però è chiaro che la ministra Trenta, pur avendo firmato una prima volta, quando il tribunale amministrativo sospende il decreto e Salvini ne produce un secondo, decide di non firmare e così fa anche Toninelli. La sigla sul secondo dei provvedimenti emessi è solo dell’allora ministro dell’Interno. Garroni conferma che Trenta ha ricevuto alle 2 del 15 agosto 2019 il nuovo provvedimento firmato da Salvini.

La resa di Matteo

Il caso Open Arms si risolve il 20 agosto 2019, con l’atto del procuratore capo di Agrigento, Luigi Patronaggio, che dispone il sequestro preventivo della nave umanitaria. I migranti a bordo possono finalmente sbarcare, dopo essere stati ostaggio per quasi 20 giorni delle politiche sovraniste ma soprattutto improvvisate di Salvini. Delle 164 persone soccorse dalla ong spagnola molti, in condizioni pessime, sono già stati fatti scendere nonostante le resistenze del leader leghista. I restanti 88 sbarcano e appaiono provatissimi. Dopotutto la situazione a bordo era drammatica e i migranti avevano tentato più volte di tuffarsi in acqua per raggiungere la costa a nuoto. Il procuratore Patronaggio, dopo un’ispezione, aveva descritto la situazione come «esplosiva».

A inizio ottobre 2019 i pm bussano al Viminale ormai orfano di Salvini ma dove ancora si trovano dirigenti e funzionari della catena di comando che ha bloccato Open Arms davanti alla costa di Lampedusa. È dopo quelle verifiche che il fascicolo di indagine, fino a quel momento contro ignoti, si arricchisce di nomi e cognomi dei responsabili politici e Matteo Salvini viene indagato per sequestro di persona e omissioni d’atti d’ufficio. Le carte dell’accusa arrivano a Palermo, che le trasmette al tribunale dei ministri competente per la richiesta di autorizzazione a procedere. Il 30 luglio scorso il Senato ha autorizzato il processo nei confronti dell’ex ministro della Lega. Il 9 gennaio 2021 è fissata l’udienza preliminare al tribunale di Palermo, dove i giudici decideranno se rinviarlo a giudizio. Le cicatrici indelebili sui corpi delle donne torturate in Libia sono una prova che sulla Open Arms c’erano vittime e non terroristi.

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