Si è aperto ufficialmente a Milano il processo al businessman nigeriano Aliyu Abubakar, l'imputato che era rimasto fuori dal maxi procedimento contro Eni e Shell per quella che è considerata dai magistrati inquirenti la maggiore tangente mai pagata da un'azienda italiana: 1,09 miliardi di dollari pagati nel 2011 per acquisire i diritti di esplorazione e sfruttamento del campo petrolifero Opl 245, situato a largo delle coste dello stato africano.

Questa licenza era stata ceduta dalla società Malabu, riferibile a Dan Etete, uno degli uomini politici più influenti di tutta la Nigeria finito anch'egli alla sbarra a Milano.

Il processo principale, nel quale sono imputati per corruzione internazionale anche l'attuale amministratore delegato del gruppo petrolifero italiano Claudio Descalzi e il suo predecessore Paolo Scaroni, è alle battute finali dopo la chiusura di tutte la arringhe difensive.

A metà marzo dovrebbe arrivare la sentenza dopo un paio di anni di dibattimento in aula con decine di testi e qualche colpo di scena. Per Descalzi e Scaroni l'accusa ha chiesto ben 8 anni di carcere a testa.

Abubakar potrebbe sembrare un personaggio minore e di secondo piano nell'affresco giudiziario che ruota intorno a questa storia: in realtà è l'uomo che avrebbe ritirato dai conti riferibili a Malabu ben 520 milioni di dollari dopo la conclusione dell'affare che ha portato a Eni e Shell uno dei giacimenti più promettenti delle coste nigeriane.

Di questa enorme massa di denaro si erano poi persa la strada dopo che l'uomo d'affari nigeriano li aveva trasformati in contanti. La carta moneta, si sà, passa di mano in mano senza lasciare tracce, ed è quindi molto più fungibile.

L'accusa ha sempre sostenuto che parte di questi soldi siano poi andati a pubblici ufficiali nigeriani che avrebbero preteso la loro parte per consentire a Etete di poter vendere i diritti di sfruttamento su questo giacimento, finito nella sua disponibilità dopo una lunga e contorta storia di ribaltoni legali e governativi che avevano dato e tolto alla società Malabu l'Opl 245. Le autorità giudiziarie italiane hanno chiesto il sequestro dei 520 milioni di dollari alla Nigeria, ma il governo dello stato del West Africa ha rifiutato di adempiere a questa richiesta, senza di fatto spiegare i motivi.

Dal processo principale, nell'udienza del 20 gennaio, è emersa una novità che collega ancor più strettamente Abubakar con i fatti del procedimento centrale e accresce l'idea che la politica governativa nigeriana fosse ben conscia e interessata a quella gran massa di soldi.

Per espressa previsione di legge i pubblici ufficiali stranieri non possono essere giudicati dalla giustizia italiana per il reato di corruzione internazionale, ma ai nostri magistrati spetta l'onere di provare che loro siano i terminali delle tangenti.

A questo proposito la procura ha depositato, in piena zona Cesarini si potrebbe dire, un paio di documenti inediti e ritenuti dagli investigatori significativi per comprendere meglio il ruolo di Mohammed Bello Adoke, al tempo dei fatti Attorney General della Nigeria, qualcosa di assimilabile al nostro ministro della Giustizia.

Documenti emersi da un contenzioso civile inglese tra la banca americana Jp Morgan e la Nigeria, che descrivono la vicinanza tra l'uomo del mezzo miliardo di dollari in contanti e il ministro.

Nel primo documento si rintraccia una mail inviata dal ministro della Giustizia alla banca Jp Morgan utilizzando curiosamente l'email di una società di Abubakar – la A. Group Properties – e non la propria e allegando le bozze degli accordi tra Eni, Shell e il governo per il passaggio di Opl 245.

Jp Morgan era titolare del conto vincolato intestato al governo nel quale le due società petrolifere avevano depositato l'intera somma (1,3 miliardi di dollari) da destinare a Malabu e che sarebbe stata poi sbloccata una volta che tutto l'accordo di fosse perfezionato.

In Jp Morgan lavorava in quel tempo un funzionario di origine nigeriana che proprio nei giorni dell'invio di quella mail era in Nigeria. Un testimone Eni sentito nel processo principale aveva raccontato di aver discusso proprio con il bancario dell’istituto americano in quei giorni dei problemi di sbloccare la somma e farla uscire dal conto vincolato.

La mail del ministro con le bozze dell'accordo, nella ricostruzione dei pm, sarebbe quindi servita a convincere la banca della conclusione dell'affare.

Un intervento che la procura sospetta, quindi, essere stato decisamente interessato e a conoscenza dell'uomo, ora a processo, che avrebbe poi monetizzato i 500 milioni di dollari e che ha poi venduto, a un prezzo giudicato irrisorio, proprio a Bello Adoke un terreno edificabile in pieno centro di Abuja.

Il tribunale deciderà se ammettere questi documenti nel processo principale il prossimo 3 febbraio.

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