Gira un aneddoto apocrifo ma verosimile e innocuo sul campione guascone Alberto Tomba che, in una cena organizzata da uno sponsor, aveva incontrato una giovane promessa del tennis italiano, Andreas Seppi (poi degnissimo professionista, già numero 18 al mondo e tuttora, a 37 anni, in campo nei tornei più prestigiosi). Alla domanda «Ma tu come sei, in classifica?», il giovin Seppi aveva risposto un numero intorno all’ottanta-novanta, per sentirsi replicare: «Bravo, eh. Io però, alla tua età, arrivavo primo, non novantesimo!»

Il tennis torna di moda

Che il tennis stia tornando di moda come quando si girava con le zeppe e i pantaloni a gamba svasata, e tutti avevano in mente il ciuffo e le veroniche di Panatta (le volée dorsali di rovescio, con termine mutuato dal gesto del torero nella corrida) è fatto ormai conclamato. E porta con sé un carico di entusiasmo e aspettative appesantito da 45 anni di latitanza: Adriano vinse l’ultimo Slam maschile nel 1976, proprio nello stesso Roland Garros (avvertenza per cronisti e speaker a digiuno di tennis: per pietà, Garros e non Garrò) in cui le stelle nascenti Lorenzo Musetti e Jannik Sinner hanno scaldato gli animi degli italiani.

Lunedì scorso, l’uno ha fatto faville per due set contro il numero uno del mondo, Novak Djokovic, prima di essere sfinito dalla superiorità atletica del serbo (una volta tanto, il punteggio basta a raccontare la partita: 6-7 6-7 6-1 6-0 4-0 ritiro). Siccome il tennis vive anche di regole antiche e non tutte quante scritte c’è chi, come Boris Becker, ha pensato di stigmatizzare quel ritiro di Musetti, a partita ormai decisa. Scordandosi che proprio il giovin Djokovic, suo protetto per qualche stagione, quando le cose si mettevano male, era solito stringere la mano all’avversario per evitargli, quantomeno, la soddisfazione di chiudere il matchpoint.

Prima Sinner

Il tribunale del popolo italiano lo ha però assolto, perché ha offerto un paio di ore di tennis da capogiro, di creazioni e variazioni continue, quando nessuno lo credeva (ancora) in grado di rivaleggiare con il più fenomenale e sfiancante atleta della storia di questo sport, uno capace di mandare gambe all’aria Federer con il suo ritmo forsennato. Musetti, baby boy di Carrara che già affronta i big con la sfrontata consapevolezza di chi sa di essere un destinato, potrà contare su un jolly che, in Italia, conquista una bella fetta degli appassionati: ha un gioco incantevole. Ha la mano fatata, crea gioco, schiaffeggia e carezza la palla: più di Sinner, che la prende a bastonate come se le avesse rubato casa e fidanzata.

Ecco, Sinner: osannato fino a ieri l’altro, acclamato come il nuovo salvatore della patria che avrebbe condotto l’Italia a dominare sull’agguerrito mondo del tennis globale, secondo l’opinione dominante del grande pubblico - che sta tornando a maneggiare uno sport rimasto a lungo confinato in piccole oasi di appassionati ultrainformati - avrebbe profondamente deluso contro Rafa Nadal, il proprietario per usucapione del Roland Garros, torneo in cui lo spagnolo ha trionfato per 13 volte e, incredibile a dirsi, ha perso due (due!) partite in più di 15 anni, contro 104 vittorie. Deluso perché ha perso.

Per lo sportivo da divano, Sinner – il pupillo di coach Riccardo Piatti, arrivato dalle nevi di San Candido e già pronto a fare sfracelli nel tennis che conta – avrebbe dovuto vincere, se non fare spalla a spalla, col toro di Manacor; invece, la sua partita s’è disciolta sul 5-3 del primo set, un po’ come era capitato lo scorso anno in questo stesso appuntamento e, più recentemente, agli Internazionali d’Italia. Un turno di servizio bislacco, con due dritti cacciati fuori e un doppio fallo, e un sonno agonistico durato dal 3-5 Sinner al 7-5 4-0 Nadal.

Non è il calcio

Ma il tennis non è una gara sui cento metri. Non è il calcio, filtrato dalla sua mentalità deteriore secondo cui o arrivi primo, o è come se non avessi partecipato. In un tabellone dello Slam, ogni lunedì, si parte in 128. Dopo due settimane, 127 tennisti hanno perso: chi subito, chi in finale. E la settimana dopo si riparte con un altro evento, magari più piccolino ma con le stesse regole: uno solo vincitore di domenica, tutti gli altri tecnicamente perdenti.

Insinuarsi in una visione così manichea dello sport e fare dei distinguo è complicato, ma bisogna provarci per grattare la superficie delle cose. Nel tennis, non esiste sfida più disagevole che affrontare Nadal sul centrale di Parigi. Che un giocatore italiano avesse alimentato addirittura aspettative di vittoria, è fatto clamoroso.

Questa non è, tuttavia, una giustificazione universale per le sconfitte: la scusologia dei tennisti italiani, in passato, era così nota da essere stata canonizzata da Nanni Moretti in un suo film, in cui raccontava di quei giocatori che perdevano dando la colpa al vento, alla sfiga, e tenendo le spalle a bottiglia come se fossero stati vittime di chissà quale ingiustizia divina.

Sinner ha perso anzitutto perché Nadal, sulla terra battuta, è una specie di mostro a otto teste. Ciò non significa che la partita sia andata come ci si poteva attendere, perché effettivamente si ha ragione di rimanere amareggiati: il giocatore italiano è stato sostanzialmente remissivo. Si è ingarbugliato nel momento di chiudere il primo set - che avrebbe dovuto vincere contro un avversario cui, stranamente, si era incrociata la vista. Molto probabilmente, avrebbe finito col perdere ugualmente: ma da un campione, per quanto ancora a cantiere aperto, che nella classifica dei soli risultati del 2021 è al nono posto e punta alla qualificazione al Master (il torneo dei maestri di Torino che accoglie i migliori otto della stagione) era lecito attendersi un piglio differente. Perdere sì, ma con tigna e senza la testa bassa di chi, forse, si è rassegnato alla sconfitta prima del tempo.  

Adesso Berrettini

Questa sera, invece, tocca a Matteo Berrettini. Contro Novak Djokovic. Negli ottavi di finale del Roland Garros avrebbe dovuto sfidare Re Roger, ma Federer ha dato forfait: a 39 anni navigati, con l’unico obiettivo di vincere Wimbledon dopo un anno abbondante lontano dai campi e due operazioni al ginocchio, lo svizzero non se l’è sentita di scendere in campo contro il giocatore più violento e vigoroso che l’Italia abbia mai presentato. Boom Boom Berrettini non è nuovo alle imprese nei tornei dello Slam. Nel 2019, arrivò in semifinale agli Us Open. Se è dove è, e stasera toccherà a lui provare a prendere a sportellate il numero uno del ranking, lo deve anche a Vincenzo Santopadre, coach ed ex giocatore dal cervello fino, che gli fece un discorso chiaro ante litteram: tu sei già alto, e diventerai massiccio.

Non puoi giocare buttando la palla di là e iniziando a scambiare col dritto, solo perché in Italia solitamente si gioca così sulla terra battuta e tu ti senti a tuo agio a prolungare lo scambio. Il servizio deve diventare il perno intorno a cui gira tutto il tuo gioco. Col dritto, appena puoi, devi rischiare e fare punto. Se sbagli un po’ di più, pazienza.

Per qualche tempo, Berrettini – romano con nonna brasiliana, genitori mai invadenti, educazione rara e un sorriso che disarma – sbagliò un po’ di più. Perse contro ragazzi che, alla vecchia maniera, batteva con agio. Se avesse deciso di mantenere la mentalità nostrana del vincere subito e a ogni costo, sarebbe tornato a giochicchiare alla vecchia maniera e, oggi, nessuno lo riconoscerebbe per strada.

Sul lungo termine, ha avuto ragione il coach: dai tornei in cui manco ci si paga le spese è passato a frequentare il club esclusivo del tennis. Si è già qualificato al Master nel 2019. Ha imparato ad avere a che fare con padre, figlio e spirito santo (Federer, Nadal, Djokovic); qualche settimana fa, ha giocato la prima finale in un torneo di categoria 1000, a Madrid. Sono gli eventi più importanti, fatti salvi i quattro Slam.

Potrà vincere contro Djokovic? Più no che sì, onestamente. Ma non è detto: se il servizio e il dritto gireranno al massimo, se in curva continuerà ad accelerare senza uscire di strada, potrebbe farcela. Anche se sulla distanza dei tre set su cinque, in un quarto di finale Slam, uno qualunque dei membri della Triade diventa pressoché intoccabile.

Ma l’idea così restia a passare è che la sconfitta, nel tennis - e soprattutto certe sconfitte - non sono la finale di Champions League, che Iddio sa se mai capiterà ancora di giocarla, e ancor peggio di potersi trovare a tu per tu col portiere al novantesimo e, magari, non tirare più sul palo. Il tennis dà sempre (o quasi) una seconda, terza, quarta possibilità. Se poi, da 15 anni, sono gli stessi tre giocatori a fare razzia di Slam, e il resto del mondo sostanzialmente li sta a guardare, è anche per una combinazione difficile a ripetersi e che, comunque, sta per cambiare registro: pure gli dèi nel tennis hanno una data di scadenza e, prima o poi, lasceranno campo libero.

Anche a Sinner, a Musetti, a Berrettini: la bella notizia è che, una volta tanto, non toccherà narrare le gesta di tedeschi, ciprioti, scozzesi, greci e canadesi. Questa volta ci saremo anche noi. Noialtri, che già siamo maestri nel semplificare e bollare affari complicati e sfumati: come quando Adriano Panatta, il divo Panatta, perse una partita in Coppa Davis del 1978 contro l’ungherese Péter Szőke, e, da beato che era, i giornali non si peritarono di titolare «Panatta sconfitto da un cameriere» perché si era scoperto che quel ragazzo, agli esordi della carriera, arrotondava lavorando nella ristorazione dell’aeroporto di Budapest.

Vincerà?

La sostanza è che una vittoria di Berrettini non è inconcepibile, e sarebbe un risultato da mandare a memoria per la vita. Senza che una sconfitta debba diventare d’ufficio una bocciatura, o un quarto di finale Slam un «sì vabbè, ma il torneo non lo ha vinto lui». Il tennis ha i suoi incroci, e c’è anche spazio per la casualità: quest’anno, per dire, il tabellone del Roland Garros è stato sorteggiato in maniera tale che la prima metà, quella in cui si sono trovati Berrettini, Sinner e Musetti ma anche Nadal, Djokovic, Federer sia zeppa di fenomeni mentre, in basso, ci sia un cammino più agile per arrivare in finale. Succede. Perché il tennis è uno sport antico, a eliminazione diretta, che ha i suoi codici fattisi tradizione canonizzata. E la sua alea: se Panatta non avesse salvato, nel primo turno del 1976, un match point a Pavel Hutka con una volée in tuffo, per poi conquistare partita e torneo, non saremmo qui a parlarne. Sinner stesso, similmente, ha avuto un match point contro al primo turno contro Herbert, e sarebbe bastato un nastro per raccontare un’altra storia. Il tennis è l’unico sport in cui si chiede scusa per un punto vinto fortunosamente. L’unico sport di massa che continua ad adottare un linguaggio arcaico, «love» per indicare lo zero, «deuce» per la parità. La stessa locuzione che tutti usiamo per indicare l’elenco dei favoriti del torneo che vengono sistemati nei tabelloni, «teste di serie», deriva da un metodo ideato da Lewis Carroll (quello di Alice nel paese delle meraviglie, sì) e pensato in modo da non far incontrare i più forti tra loro nei primi turni. E, pure qui, noi italiani ci abbiamo messo lo zampino: la traduzione, sbagliata (testa-di-serie, in italiano, non significa nulla) è trasposizione letterale dal francese tête de série, cioè in testa (in cima) alla lista, svista di un antico direttore del mensile specializzato Il Tennis Italiano, Umberto Mezzanotte.

In tutto questo garbuglio di norme e di distinguo, il gioco del tennis resta una disciplina che conquista, che cattura l’occhio e il cuore perché è bella. E se, finalmente, vincono gli italiani, lo è ancora di più.

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