La festa di Pontida, i sorrisi dei 15mila militanti sul pratone e le pacche sulle spalle tra i dirigenti nel backstage non devono trarre in inganno. E neppure gli applausi per Marine Le Pen, portata qui da Salvini sul sacro prato dell'indipendentismo leghista. Lei che guida il partito più nazionalista e centralista di Francia.

Nei giorni che hanno preceduto il raduno, circolava sulle chat di leghisti del nord fuoriusciti, o quasi, un volantino degli anni Novanta: «È fascista come i partiti di Roma», il titolo del foglietto della Lega Lombarda distribuito all'epoca e poi affisso in molte sezioni locali, «il fenomeno Le Pen dimostra che, dove viene imbavagliata l'autonomia, cresce fatalmente il fascismo».

Il volantino era riferito al padre di Marine, Jean Marie, primo erede del neofascismo in Francia, fondatore del Front National, preso in mano poi dalla figlia finché non ha cambiato nome ma non identità: ora si chiama Rassemblement National.

Le Pen fa il suo ingresso sul palco all’una e mezza, accompagnata dall’amico e alleato Salvini. Applaudita pure da qualche fan leghista con svastiche disegnate sullo zaino. «Voi in Italia e noi in Francia siamo impegnati nella lotta per la nostra patria, so quanto ci tenete alla libertà della nazione», dice, per proseguire con un attacco alle politiche green, al politicamente corretto, a chi mette in pericolo l’identità nazionale. «Forse non sapete che l’Europa guarda all’Italia, e noi vostri alleati eravamo orgogliosi della Lega e di Salvini. E guai a chi non si rende conto dell’allarme dell’immigrazione». Un messaggio chiaro: l’alleanza per l’europee tra lei e Salvini è indiscutibile.

«W l’Italia, w l’Europa delle nazioni», saluta la leader francese. Segue il Capitano Salvini. Inizia dalla libertà di espressione, non cita il nome del generale Roberto Vannacci, ma lo difende parlando del diritto di ogni cittadino a scrivere un libro. «Questa Pontida non sarà un problema per il governo, al contrario, dureremo cinque anni. Giorgia Meloni a Lampedusa è la sintesi di un destino comune, non riusciranno a dividerci, anche se proveniamo da culture diverse».

Spegne così ogni polemica su presunte lacerazioni interne al governo. Infine ritorna su un vecchio tormentone, assai caro pure a Le Pen: l’Islam, «da guardare con estrema attenzione», e la sostituzione etnica, chiamata da Salvini «tentativo di annullamento della nostra cultura», con il finanziere Soros a tirare le fila di tutti i disegni oscuri. «Va utilizzato ogni mezzo necessario per fermare l’immigrazione, l’invasione». La campagna per le europee è cominciata a Pontida, il 17 settembre 2023, con quasi un anno di anticipo.

Nazionalismo o autonomia?

Chiedi di Le Pen e molti anziani col fazzoletto verde al collo storcono il naso, glissano con un smorfia che somiglia a un sorriso complice. Loro più che all’Europa delle nazioni, aspirano più bossianamente a una dei popoli. Ecco che dietro l'apparente serenità e lo spirito di unità del partito sovranista guidato da Matteo Salvini, si insinua l'eterno conflitto interno e silenzioso, che solo a tratti emerge nelle poche sezioni rimaste in giro per il Nord. Il conflitto è tra salviniani sovranisti e nordisti autonomisti. Va avanti da anni, amplificato dalla caduta libera dei consensi. Fino al trionfo delle europee 2019 con il 34 per cento, l'apice del successo per Salvini, da Bergamo a Palermo nessuno si permetteva di contestare il cambio di linea politica, una lenta manovra iniziata nel 2013 quando Salvini è stato eletto segretario.

«Chiamarlo congresso è un po' eccessivo», dice un militante in attesa sul pratone di Pontida di fianco allo stand del Veneto, indossa come un mantello la bandiera con il Leone di San Marco e la scritta “Autonomia subito”. Il senso lo spiega subito dopo: «In quella fase post scandali giudiziari, Roberto Maroni e altri trovarono l'accordo con le varie anime prima del congresso, doveva essere Salvini e così è stato. Quindi un vero congresso in realtà manca da moltissimo tempo».

Mentre pronuncia le ultime parole, sale sul palco Luca Zaia, il Doge, governatore del Veneto cui ogni anno è appaltato il comizio sull'autonomia: porta la sua squadra e srotola il bandierone della Serenissima, «autonomia subito». «Il leone è sempre più incazzato», esordisce Zaia, riferendosi alla battaglia delle battaglie. «Cosa state facendo per l'autonomia, mi chiedono i militanti. Il governo ha presentato un disegno di legge», Zaia tenta di scaldare i cuori padani.

Di certo però dal 2013, con varie tappe intermedie passate anche da ammiccamenti con i neofascisti di Casapound, la Lega Nord (gravata dal debito di 49 milioni con lo stato per via della truffa sui rimborsi elettorali) è stata catapultata su un nuovo pianeta, sovranista, molto distante da quello federalista e autonomista, o indipendentista delle origini. Il piano nazionalista di Salvini culmina nel 2018, con la fondazione davanti al notaio del nuovo partito Lega Salvini premier. Ciao ciao Lega Nord, che continua a esistere solo formalmente, ma è un involucro vuoto di idee e pieno di debiti.

«Trasferitela a Salò»

Sul pratone dunque si mescolano le storie di due partiti, di due Leghe, che qui fingono di essere il medesimo movimento. Ma al di fuori dei confini di questo tappeto verde la farsa si manifesta come tale. «Salvini ormai del federalismo non sa che farsene», dice una bossiana di ferro, Monica Rizzi, ora nel partito Grande Nord, «parla solo di Ponte sullo Stretto».

L'infrastruttura impossibile è un altro tasto dolente per veneti e lombardi autonomisti, poco interessati alla questione e convinti che il capo della Lega dovrebbe dedicare anima e corpo agli interessi del Nord. «Prima il Nord», lo slogan coniato da Maroni prima che lasciasse la segreteria la ritroviamo su una bandiera bianca poco distante dal palco dal quale Salvini e Le Pen hanno parlato di interessi nazionali. Un tempo dicevano Roma Ladrona, oggi è la Bruxelles dei burocrati a esserlo.

Altro tono, nettamente più duro e provocatorio, è quello usato da Angelo Alessandri, già presidente della Lega Nord con Umberto Bossi segretario. Alessandri è tra i fondatori di Grande Nord, un movimento nato qualche anno fa con la benedizione di Bossi, anche se ora si «è arreso, lui ci ha suggerito il nome, prima di essere ricandidato con la Lega, adesso preferisce il silenzio», dice Alessandri. «Ha lasciato solo anche il comitato Nord, nato all'interno del partito di Salvini, per contrastarlo nei congressi, ma l'ha fatto suicidare», aggiunge. La verità secondo Alessandri è che il raduno di Pontida andrebbe «trasferito a Salò, sarebbe più coerente. La battaglia è ormai estrema destra contro estrema destra, tra Lega e Fratelli d'Italia».

La nazionalista Le Pen è «inaccettabile», peggio, si corregge Alessandri: «È un sacrilegio, lo facciano a Salò. Pontida è simbolico, qui i liberi comuni hanno fatto un patto per combattere il nemico centralista e oppressore, ha un significato profondo. Questa di Salvini è invece un buffonata, con i “Sì ponte” sullo Stretto, la Le Pen figlia di fascista storico, Salò è perfetta».

Per il bossiano, Salvini ha rimosso «la battaglia del nord, ha venduto il partito a Roma, che ringrazia. La Lega non è più Lega. Ma non tutti hanno alzato bandiera bianca. La ripartenza è tuttavia complessa, perché passa anche dal fallimento di Salvini. Una cosa è certa: 27 anni fa abbiamo dichiarato l'indipendenza della Padania, noi siamo quelli che mantengono i giuramenti. Salvini no».

L'alternativa esiste? «Luca Zaia, Massimiliano Federiga, hanno dimostrato di non volersi mettere in gioco per la causa, fanno una loro partita personale come governatori, ma di più no». Ormai è un «partito personale, che vive e muore con Salvini».

Un partito personale nato, accusa Alessandri, «con la complicità di Giancarlo Giorgetti e Roberto Calderoli. Sa cosa mi ha detto Calderoli tempo fa? Mi disse devi fare come me e aspettare tempi migliori, adeguati. Io ho salutato». E l'autonomia di Calderoli? «La più grossa delusione umana, ho lavorato molto con lui. Si presentava come duro e puro, ma era una menzogna. Aveva giurato di tagliarsi la mano piuttosto che prendere in mano il tricolore. Eppure...».

La risposta indiretta arriva dal ministro Calderoli dal palco, con diplomazia che rispecchia l’analisi fatta da Alessandri: «Ringrazio Bossi per aver fondato la Lega, ringrazio Salvini per averla portata così in alto. Sono soddisfatto di aver trovato un accordo con tutti, risolvere la questione settentrionale e meridionale è prioritario».

Non sarà facile per Salvini e Calderoli, in ogni caso, perché la Lega nazionale ha molte anime anche a Sud. Per esempio, la Lega Calabria è molto più fredda: «Per noi il Ponte sullo Stretto viene prima di tutto, sull'autonomia ci adeguiamo al partito nel caso, ma non è certo una priorità, anche se ci hanno garantito che saranno assicurati i livelli minimi assistenziali», dice Giuseppe Gelardi, capogruppo in consiglio regionale per la Lega Calabria.

L'alternativa non è qui

«Salvini ha tradito il Nord, lo pagherà in termini di consenso. Anzi, in parte ha già pagato. Roma grazie a lui ha vinto una battaglia, ma la guerra non è finita.», concludono Alessandri, che con Grande Nord ha avviato un dialogo fitto con il siciliano Cateno De Luca, il sindaco di Taormina che crede nell'autonomia e sta cucendo alleanze in questo senso.

«È abbastanza folle come Bossi i primi anni», dicono diversi militanti del Grande Nord. «La lega ha perso la metà dei militanti iscritti in questi ultimi due anni», analizza Roberto Castelli, ex ministro della Giustizia, ma soprattutto l'incarnazione della Lega Nord che non c'è più, «quelli che sono rimasti accettano la linea di Salvini, un po' per mancanza di ragionamento politico un po' perché prevale il legame con il simbolo di Alberto da Giussano».

Castelli è fuori dalla Lega, è animatore dell'associazione Autonomia e Libertà. Lavora ai fianchi del partito di Salvini, dicono fonti ben informate lombarde. Lui non si sbilancia e preferisce non dire altro sul leader leghista. L'ex ministro ha tuttavia ancora molta influenza tra i militanti delusi, alcuni di loro spiegano un pezzo della strategia dei delusi da Salvini: «C'è un gruppo, che ha anche Castelli, tra gli ispiratori che negli ultimi due anni ha messo in campo energie per vincere i congressi locali.

A Bergamo l'obiettivo è stato raggiunto. Non ha vinto un salviniano. Ora però la dirigenza sta correndo ai ripari, imbarcando iscritti raggranellati non si sa bene dove, per far pendere la bilancia a favore dei candidati salviniani. Quindi anche la strada congressuale non è più percorribile. Fatto sta che il nord non è più rappresentato e bisognerà trovare un nuovo contenitore che lo rappresenta».

Che tipo di contenitore? «Una federazione di soggetti» dicono i castelliani, che forniscono anche alcuni dati significativi sul dissenso anti Salvini: «A Bergamo da 2200 iscritti siamo arrivati a 1100 militanti, in generale calano un po' ovunque del 50 per cento. In Val Camonica hanno rimandato il congresso perché al momento non hanno la maggioranza. Stanno cercando di fare nuovi militanti per ribaltare gli equilibri». E poi, aggiungono i nordisti fedeli a Castelli, «chiudono le sezioni perché non hanno più i numeri. Sono rimasti gli irriducibili che seguono Salvini qualsiasi linea politica adotti».

La nuova Padania

L'opposizione a Salvini i nordisti «traditi» la fanno anche con l'informazione. Sono nati così alcuni siti e giornali online con l'obiettivo di dare voce ai non salviniani. Il più seguito, anche all'interno della Lega, è La Nuova Padania diretto da una storica giornalista militante del partito di Bossi, Stefania Piazzo. «

Salvini non sarà il leader che porterà l'autonomia al popolo del nord. Si è legato ormai alle estrema destra centralista. E però l'alternativa non c'è, all'interno della Lega. Nessun leader è in grado di sostituirlo in quel contenitore». Due giorni prima del raduno sulla Nuova Padania è apparsa una lettera, che ha girato molto anche tra la dirigenza leghista non appiattita sulla linea sovranista. L'ha scritta Giuseppe Longhin, si definisce un militante della Lega Nord: «Non andrò a Pontida. Io leghista dal 1987 (sono nato nel 1968), quest'anno per la prima volta non sarò presente. Non per protesta, non per impegni, non per polemica. Semplicemente perché non è rimasto nulla del vero significato dell'incontro. Il giuramento di Pontida, secondo la tradizione, sarebbe stata una cerimonia che avrebbe sancito il 7 aprile 1167, nell'Abbazia di Pontida, la nascita della Lega Lombarda, ovvero di un'alleanza militare tra alcuni comuni lombardi ed emiliani finalizzata alla lotta armata contro il Sacro Romano Impero del Barbarossa. Non andrò a Pontida perché non è più Pontida. Un incontro del genere si poteva fare in qualsiasi altro posto. Che giuramento, che approvazione possiamo mai dare? Il Barbarossa siamo diventati noi».

Chissà se Salvini, distratto da ponti e alleati dell'estrema destra, ha letto l'addio al pratone di Longhin. Di sicuro all'orizzonte non c'è un congresso federale, nessuno ancora potrà mettere in discussione il leader, che si avvia così a festeggiare i 10 anni da segretario. Se il congresso non ha una data, è certo che a metà ottobre la Lega sarà capofila dell'internazionale nera, che riunirà a Roma tutti i partiti sovranisti europei alleati. «Ci saremo anche noi», dice un dirigente di Aur, l'Alleanza per l'unione dei romeni, il cui motto è Dio, patria e famiglia. «Verranno anche i polacchi del Pis (alleati di Meloni in Europa, ndr) e di Konfederacja», ancora più a destra dei primi. Naturalmente, come per Pontida, ci sarà Le Pen. «La centralista», scherzano alcuni sul pratone, mentre parla Attilio Fontana, con un discorso duro proprio contro il centralismo, nemico assoluto dell'autonomia «immaginata da Bossi». Lega contro Lega, appunto.

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