Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci delle motivazioni della sentenza di secondo grado del processo sulla trattativa stato-mafia.


Detto questo è innegabile che persistono, sulla figura e sull’operato del generale Subranni, pesanti ombre che ne appannano l’immagine di ufficiale integerrimo e fedele servitore dello Stato, sempre determinato a portare avanti con il massimo impegno la lotta alla mafia, nell’ambito delle sue competenze.

Così pesa come un macigno, è inutile girarci intorno, la terribile rivelazione fatta da dott. Borsellino alla moglie appena quattro giorni prima di esse ucciso, quando le disse di avere saputo — o capito — che il generale Subranni era punciutu. Anche se tale rivelazione, pur sempre de relato, da sola non poteva bastare a determinare, né giustificherebbe, un epilogo diverso da quello sancito con il decreto di archiviazione del procedimento che ne scaturì a carico dello stesso Subranni per il reato di associazione mafiosa, poiché, nonostante le approfondite indagine espletate, non fu possibile allora come non appare neppure oggi possibile risalire alla fonte di quella notizia -se davvero si trattò di una notizia appresa da qualcuno — o alle ragioni per cui il dott. Borsellino avesse maturato il convincimento sintetizzato in quell’icastica asserzione. Né si è riusciti a trovare alcun significativo riscontro alla fondatezza di quella rivelazione, dal momento che né i nuovi pentiti che il dott. Borsellino aveva iniziato in quei giorni di luglio del ‘92 a interrogare, ma neppure tutti gli altri ex affiliati a Cosa nostra che negli anni successivi sono andati ad ingrossare le fila dei collaboratori di giustizia, compresi “pentiti” di innegabile spessore, come Giovanni Brusca o Antonino Giuffrè, hanno saputo riferire alcunché circa eventuali collusioni mafiose del Subranni.

E non può certo conferirsi dignità di riscontro alle velenose insinuazioni del Di Carlo sui rapporti del generale Subranni con i cugini Salvo e con l’on. Lima, che ne avrebbero favorito avanzamenti di carriera insolitamente rapidi (insinuazione smentita peraltro dallo stato di servizio versato in atti); o alle più che tardive propalazioni dello stesso Di Carlo sul ruolo che l’allora maggiore Subranni avrebbe avuto nel depistare, sempre su sollecitazione di Nino Salvo, le prime indagini sull’omicidio di Peppino Impastato, nel senso di essersi adoperato per una fulminea chiusura delle indagini che, escludendo la pista mafiosa, allontanasse ogni sospetto sulla possibile matrice mafiosa del tragico evento e dirottasse le indagini dalla locale cosca mafiosa che faceva capo a Gaetano Badalamenti.

Peccato che Di Carlo abbia indicato come proprie uniche fonti di conoscenza di quella devastante “verità” due soggetti morti da anni (come Nino Badalamenti, ucciso nel 1981, e Nino Salvo, morto per cause naturali nel 1986), e quindi impossibilitati a smentirlo; e che ne abbia parlato per la prima volta nel 2012, circa sedici anni dopo che aveva iniziato a collaborare con la Giustizia; e

soprattutto che non avesse fatto il minimo cenno al ruolo attribuito (dalle sue fonti) al Subranni nei due procedimenti aventi specificamente ad oggetto quel delitto, il primo definito dalla Corte d’Assise di Palermo con il rito abbreviato a carico di Palazzolo Vito, esponente di spicco della cosca mafiosa di Cinisi (...); ed il secondo celebrato da altra sezione della stessa Corte d’Assise con il rito ordinario a carico del capo riconosciuto di quella cosca, Gaetano Badalamenti (...), pur essendo stato sentito nel processo celebrato con rito ordinario e nella fase delle indagini che avevano preceduto quello definito in abbreviato.

Tanto meno possono assurgere a dignità di riscontro le insinuazioni fatte sul conto del Subranni dall’allora maresciallo Canale, e raccolte dalla dott.ssa Camassa, la quale, nel confermare che Paolo Borsellino nutriva un rapporto di stima e affetto per i Carabinieri ed aveva rapporti di amicizia con molti ufficiali dell’Arma, rammenta altresì che lo stesso Canale, che all’epoca era uno dei più stretti collaboratori del dott. Borsellino, le aveva confidato, in occasione della cerimonia di commiato tenutasi alla procura di Marsala (il 4 luglio del ‘92) la sua preoccupazione per il fatto che egli si fidasse troppo del generale Subranni o del Col. Mori, che invece erano a suo dire personaggi “pericolosi”, senza specificare altro.

Ma la stessa dott.ssa Camassa ha precisato di non poter escludere che il Canale — il quale dal canto suo ha recisamente smentito la confidenza che la dott.ssa Camassa gli attribuisce: ma sono comprensibile le sue remore ad ammetterla, considerato che militava ancora nell’Arma quando è stato sentito sul punto - non le abbia fatto espressamente quei nomi e si sia limitato a fare riferimento ai vertici del Ros, sicché può essere stata lei a dedurne che potesse trattarsi di Mori e Subranni.

In ogni caso si tratta di asserzioni rimaste generiche e apodittiche, che potevano anche essere frutto di invidie o gelosie professionali, tant’è che lo stesso Canale o non ne fece mai cenno al dott. Borsellino, o, se lo fece, le sue preoccupazioni dovevano essere talmente disancorate da elementi specifici che il valoroso magistrato non ritenne di darvi alcun seguito.

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