Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci delle motivazioni della sentenza di secondo grado del processo sulla trattativa stato-mafia.


Ma tornando alla rivelazione che la signora Agnese Piraino Leto attribuisce al marito, si può convenire, dando massimo risalto al contesto in cui quella frase fu pronunciata e al suo carattere anche di sfogo emotivo, su una lettura che ne stemperi il significato letterale, interpretandola nel senso che la notizia che tanto aveva turbato il dott. Borsellino era che il Subranni avesse avuto rapporti o tenuto comportamenti che ne implicavano una sostanziale collusione con l’organizzazione mafiosa.

E l’espressione “punciutu” non alludeva all’essere il Subranni formalmente affiliato a Cosa nostra con il classico rito del “santino” che brucia tra le mani del nuovo adepto, ma era solo un modo per enfatizzare il concetto che egli aveva inteso esprimere nel confidare alla moglie quel terribile segreto, quasi a voler trarre un minimo sollievo dal condividere con lei il turbamento che ne aveva ricavato sia nel venirne a conoscenza (tanto da avere provato conati di vomito), sia nel farne cenno alla moglie.

Ma era comunque una notizia così impressionante ed esplosiva, che, contrariamente a quanto eccepito dalla difesa del Subranni, e dallo stesso imputato nelle citate dichiarazioni spontanee, è del tutto plausibile che non si sia sentito di fame il minimo cenno con nessuno con i colleghi con i quali si vide ed ebbe contatti in quegli stessi giorni per ragioni di lavoro. Non era una notizia da poter commentare o comunicare con nessuno, al di là del fugace sfogo avuto con la moglie e compagna di una vita in un momento di particolare scoramento; e tanto meno poteva correre il rischio che una notizia simile. appresa pochi giorni prima, trapelasse in ufficio e dall’ufficio prima di avere fatto le necessarie verifiche e i doverosi riscontri.

D’altra parte, nessuno dubita della genuinità della testimonianza della vedova Borsellino, che peraltro nessuna ragione avrebbe avuto per calunniare, a distanza di tanti anni dalla morte di suo marito, il generale Subranni. E della sua sincerità sembrano essere convinti persino i suoi due coimputati, Mori e De Donno, per come si espressero (più il secondo che il primo, limitandosi Mori ad assentire con monosillabi alle esuberanti considerazioni del De Donnpo) nel corso della conversazione telefonica intercettata l'8 marzo 2012 e vertente proprio sulla testimonianza della signora Leto, come puntualmente annotato alle pagg. 1257 e 1258 della sentenza impugnata (che richiama anche la successiva conversazione intercorsa tra lo stesso De Donno e tale Raf, non meglio identificato: «perché poteva raccontare pure che cazzo voleva a dire la verità secondo me quindi, secondo me, forse la signora dice la verità io poi non la conosco la Signora Agnese, perché...perché dovrebbe inventarsi sta cazzata su Subranni... per cui presumo pure che probabilmente Borsellino l’abbia pure fatta sta battuta con la signora però bisogna vedere che cazzo intendeva lui, cioè chi glielo ha detto...»).

L’affidabilità poi del ricordo (fatta salva la remota possibilità che a distanza di tanti anni o anche in tempi più prossimi al colloquio del 15 luglio, la signora Agnese possa essere incorsa in un lapsus con conseguente scambio di persona sul nominativo dell’alto ufficiale del quale il dott. Borsellino avrebbe scoperto che era punciutu) anche con riferimento alle circostanze in cui aveva ricevuto dal marito la tremenda rivelazione, è puntellata dalla testimonianza di Diego Cavallaro, magistrato e amico di famiglia dei Borsellino, che continuò anche dopo la morte di Paolo, a intrattenere rapporti di amicizia e frequentazione con i congiunti del collega ucciso.

Questi, in occasione di una visita a casa Borsellino, che ha collocato temporalmente tra la fine del 2003 e l’inizio del 2004, e in un momento in cui si trovò a conversare in un clima di assoluta confidenza a quattro occhi con la signora Leto, ne ricevette la stessa rivelazione di cui la signora Agnese avrebbe riferito all’a.g., per la prima volta, soltanto 5 o 6 anni dopo.

La difesa di Subranni

Per il resto, tutte le obbiezioni mosse dal Subranni nella sua appassionata autodifesa - e dai suoi difensori nel proposto gravame - si infrangono contro le persuasive argomentazioni spese dal giudice di prime cure nel motivare il giudizio di attendibilità della testimonianza della vedova Borsellino: argomentazioni che questa Corte ritiene di dover sottoscrivere integralmente e per le quali si rimanda alle pagg. 1254- 1257 della sentenza in atti.

Valga solo ribadire che la signor Leto ha offerto una spiegazione plausibile del ritardo con cui ha riferito all’A.G. quell’episodio, così svelando un segreto che aveva custodito per anni, senza fame parola con nessuno, nonostante I’ inesausta passione con cui aveva sempre onorato la memoria del marito, anche attraverso il suo personale impegno a dare il proprio contributo all’accertamento dei fatti nei tanti processi in cui era stata chiamata a deporre e prima ancora, o contestualmente, nelle indagini mai conclusesi per individuare i responsabili della strage di via D’Amelio, inclusi eventuali mandanti occulti.

Ha spiegato in sostanza la vedova Borsellino che temeva di danneggiare l’immagine dell’Arma intera, se avesse reso pubblica quella sconcertante confidenza. E, avendo mutuato da suo marito un rapporto di stima e ammirazione nei confronti dei Carabinieri, che in lui non era venuto meno neppure dopo l’orribile scoperta fatta nei suoi ultimi giorni di vita, aveva sempre ritenuto che essa fosse circoscritta alla persona del Subranni; e tale doveva rimanere, se non voleva fare torto all’Arma e a suo marito.

Non v’era quindi motivo di estendere un inevitabile giudizio di riprovazione nei riguardi dell’ufficiale infedele ai tanti altri ufficiali dell’Arma con cui suo marito aveva lavorato, nutrendo per loro una stima incondizionata, ed essendo legato, ad alcuni di loro, anche da rapporti di amicizia. Come non v’era ragione di che la signora Piraino Leto provasse imbarazzo nell’incontrare alti ufficiali dell’Arma (ma non il generale Subranni tra loro), come pure è provato che sia avvenuto in più occasioni (come la cena annotata dal generale Mori alla data del 16 febbraio 1993; o gli incontri con il comandante generale dell’Arma, Federici, che sono avvenuti il 13 maggio 1993 e il 28 gennaio 1994, come documentato agli atti del Comando generale; o in tante altre occasioni di incontri con ufficiali dei Carabinieri per cerimonie o eventi pubblici cui però non risulta abbia partecipato anche il generale Subranni).

E così si spiega anche la ferma volontà dei familiari del dott. Borsellino, confermata da più fonti, che fossero ufficiali del Ros a presenziare alla perquisizione dell’abitazione del loro congiunto, nell’immediatezza della strage di via D’Amelio.

Mentre resta solo un’astratta congettura, a fronte di un materiale probatorio così aleatorio e improbabile, l’ipotesi adombrata dalla pubblica accusa (peraltro solo nella requisitoria della discussione finale del giudizio di primo grado) che la ritenuta e brusca accelerazione dell’iter attuativo della strage di via D’Amelio possa ricondursi in qualche modo proprio alla sconcertante scoperta fatta dal dott. Borsellino negli ultimi giorni della sua vita su presunte collusioni mafiose del generale Subranni.

Basti rammentare, per tacere d’altro, che, se davvero vi fu l’asserita accelerazione, essa rimonterebbe comunque a diversi giorni, anzi a diverse settimane prima del 15 luglio ‘92.

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