Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci delle motivazioni della sentenza di secondo grado del processo sulla trattativa stato-mafia.


Altre ombre sulla trasparenza e correttezza del modo di operare del generale Subranni nelle indagini più delicate provengono dalle risultanze del procedimento penale cui è stato sottoposto per l’accusa di avere depistato in favore del boss di Cinisi Gaetano Badalamenti e comunque della locale cosca mafiosa le indagini sulla morte di Giuseppe Impastato, che furono condotte, nell’immediatezza del fatto, dai carabinieri del Reparto operativo, all’epoca comandato dal maggiore Subranni.

Su sollecitazione del p.g. è stata acquisita la documentazione relativa ai più significativi atti d’indagine, unitamente alle sentenza emesse sull’omicidio Impastato, al fine di comprovare la gravità del depistaggio che oggettivamente si consumò fin dai primi giorni d’indagine per avere gli inquirenti imboccato senza tentennamenti, e senza neppure considerare la possibilità di ipotesi alternative, una pista - e cioè quella di un attentato suicida, o, in alternativa, della morte accidentale della vittima, mentre tentava di compiere un attentato dinamitardo con finalità terroristiche, consacrata nei rapporti giudiziari a firma dell’allora maggiore Subranni trasmessi all’a.g. in data 10 e 30 maggio 1978 - che doveva presto rivelarsi priva di qualsiasi fondamento; e per avere invece scartato a priori quella “pista mafiosa” che si è poi rivelata fondata, e che fin dall’inizio avrebbe dovuto essere ritenuta quanto meno meritevole di particolare attenzione.

Ed è stato acquisito anche il decreto emesso il 25 agosto 2018 con cui il gip di Caltanissetta ha archiviato, per intervenuta prescrizione, il procedimento a carico del generale Subranni, indiziato di favoreggiamento aggravato, e dei sottufficiali dell’Arma Canale Carmelo, Abramo Francesco e Di Bono Francesco per falso in atto pubblico. Un provvedimento che, al di là dell’esito in posto dal tempo trascorso, nel passare in rassegna le più significative risultanze emerse — proprio per documentare le quali il p.g ha chiesto e ottenuto che venisse acquisita la documentazione prodotta - perviene a conclusioni che, a parere dello stesso p.g., equivalgono ad una virtuale pronuncia di condanna del Subranni.

In realtà, il gip di Caltanissetta ha ritenuto che il fatto nella sua materialità fosse provato, giacché «l'ufficiale cli polizia giudiziaria che (...) prospetti una sola possibile ricostruzione del fatto, contemporaneamente omettendo — attraverso l‘ingiustificata obliterazione di elementi indiziariamente rilevanti, ben noti all‘ufficiale medesimo — la prospettazione di altra ricostruzione, dotata di pari se non maggiore plausibilità, realizza una condotta oggettivamente idonea ad intralciare il corso delle indagini che l’Autorità giudiziaria ben potrebbe attivare nei confronti delle persone individuabili quali destinatarie delle, investigazioni, proprio sulla scorta della ricostruzione del fatto della quale sia stata ingiustificatamente omessa la prospettazione. Detta condotta (certamente lontana da quella doverosa), invero, è oggettivamente idonea a frapporre un ostacolo al proficuo e tempestivo svolgimento delle indagini da parte dell'Autorità Giudiziaria e quindi a porre in pericolo l’interesse dell‘amministrazione della giustizia al regolare svolgimento del procedimento penale nella fase delle investigazioni, già in atto o anche solo possibili dopo la consumazione del reato»; mentre non è necessario, ai fini della sussistenza del reato ex art. 378 c.p. che l’a.g. ne risulti effettivamente fuorviata.

Anche se, nel caso di specie, non è certo implausibile sostenere — si legge ancora nel provvedimento finale di archiviazione - che l’omessa prospettazione della pista mafiosa nei due rapporti giudiziari citati avesse ingenerato difficoltà e ritardi pregiudizievoli per l'accertamento della verità. E in effetti la prima fase delle indagini era stata inesorabilmente segnata da una catena inenarrabile di omissioni (come l’avere ignorato una pietra macchiata di sangue e rinvenuta — come riferito ance dal necroforo comunale - nel casolare poco distante dal punto in cui era avvenuta l’esplosione che aveva dilaniato il corpo della vittima; o il non avere interrogato il personale addetto al vicino casello ferroviario; o l’avere ignorato gli spunti investigativi offerti dall’esposto che già in data 11 maggio 1978 indicava plurime e specifiche ragioni a sostegno dell’ipotesi dell’omicidio) o inerzie (come l’avere consentito l’immediato ripristino della linea ferrata danneggiata dall’esplosione prima ancora che sul posto giungesse la squadra di artificieri che avrebbe dovuto procedere ai necessari rilievi tecnici; e il non avere proceduto ad accertamenti nei riguardi dei proprietari delle cave ubicate nei dintorni, come la cava di Finazzo Giuseppe, imprenditore vicino a Gaetano Badalamenti.

Che distava duecento metri in linea d’aria dal luogo del presunto attentato, e in cui veniva utilizzato lo stesso tipo di esplosivo usato per simulare l’attentato), anomalie (come il “sequestro informale” di una cospicua documentazione rinvenuta preso l’abitazione della zia materna della vittima, e di cui v’era traccia in una nota dell’1 giugno 1978 a firma dell’allora maggiore Frasca, che delegava agli uomini del nucleo informativo da lui comandato di identificare le persone ivi menzionate, mentre non se ne faceva menzione nei verbali di sequestro in atti), oggettivi travisamenti del contenuto o del senso di certi documenti o di taluni reperti (come il manoscritto in cui l'Impastato enunciava propositi di suicidio, ma che risaliva a diversi mesi prima ed era frutto di un momento transitorio di particolare prostrazione, ampiamente superato come poi si accertò sulla base di inequivoche testimonianze, ed appariva smentito anche dall’attivismo e l’impegno profusi dalla vittima nella campagna per le elezioni amministrative, essendo Giuseppe Impastato candidato nelle liste di Democrazia proletaria; o l’aver scambiato i fili elettrici che fuoriuscivano dal cofano dell’auto della vittima per cavi di attivazione di un congegno esplosivo mentre si trattava dei fili della batteria utilizzati per collegarvi l’altoparlante utilizzato in quei giorni per la campagna elettorale).

E più in generale, costituiva circostanza incomprensibile e ingiustificabile, si legge ancora nel corpo della motivazione del decreto in esame, l’avere omesso qualsiasi attività d’indagine nei riguardi di personaggi riconducibili agli ambienti oggetto delle reiterate denunce pubbliche di Giuseppe Impastato.

Al generale Subranni si contestava dunque l’avere risolutamente sposato e caldeggiato una tesi assertiva sulle cause della morte di Giuseppe Impastato del tutto avulsa da una analisi di contesto del fatto investigato, certamente esigibile da un ufficiale superiore preposto al comando di un reparto operativo.

E il contesto inspiegabilmente ignorato era appunto quello notoriamente segnato dalla oppressiva presenza mafiosa, pubblicamente e costantemente denunciata dallo stesso Impastato, con pubblicazioni ed esternazioni varie e soprattutto dai microfoni di Radio-Aut, emittente che grazie ai successi di ascolto dei suoi programmi aveva amplificato la portata della pubblica denuncia di specifici illeciti o sordide collusioni politico-mafiose-affaristiche che investivano il boss mafioso locale Gaetano Badalamenti, sarcasticamente apostrofato come il Gran Capo Tano Seduto, e figure di imprese e singoli imprenditori vicini od organici alle cosche mafiose (come Pino Lipari, socio della società che gestiva il Camping Z-1O; e il già citato Giuseppe Finazzo, costruttore accusato di varie speculazioni edilizie).

Si trattava di un’attività di pubblica denuncia dagli effetti dirompenti, considerati i tempi e il contesto ambientale, e l’Arma ne era certamente a conoscenza, non foss’altro attraverso le sue articolazioni territoriali. Come era a conoscenza, risultando da rapporti anche recenti, del fatto che il territorio di Cinisi recava tracce cospicue della presenza della criminalità mafiosa, mentre non altrettanto poteva dirsi per l’esistenza o le attività di gruppi terroristici.

E se era vero che si erano verificati a Cinisi e nei territori limitrofi anche negli ultimi tempi numerosi attentati con l’impiego di esplosivi da cava, ciò era avvenuto ad opera di gruppi mafiosi e per finalità estorsive e non certo per iniziativa di (inesistenti) frange estremiste, dedite ad attentati dinamitardi per finalità di terrorismo. Tutti elementi che avrebbero reso doveroso quanto meno inserire nel ventaglio di ipotesi investigative meritevoli di approfondimento anche la pista mafiosa.

Le iniziative investigative di Subranni

Sul versante dell’elemento soggettivo, però, il gip esprime valutazioni più prudenti e interlocutorie, rimarcando la singolarità di alcune iniziative investigative ascrivibili — anche personalmente - al Subranni, al di là dei due rapporti citati e comunque una serie di sconcertanti anomalie nell’operato degli uomini al suo comando che avrebbero meritato una verifica dibattimentale, ormai preclusa dall’intervenuta prescrizione, potendosi porre a base del procedimento induttivo di ricostruzione del dolo.

Ora, è pacifico che le valutazioni espresse dal gip di Caltanissetta all’esito di un sintetico ma puntuale scrutinio delle più significative risultanze acquisite non hanno alcuna efficacia vincolante nel presente giudizio, come non l’avrebbero neppure se il procedimento si fosse concluso con un giudicato di condanna invece che con un provvedimento di archiviazione.

Ma anche volendo esaminare tali risultanze funditus e prescindendo dalla lettura che ne ha offerto il gip predetto, esse non appaiono comunque sufficienti né idonee a sciogliere il nodo che qui più interessa: e cioè se deviazioni e sviamenti che “oggettivamente” si consumarono nella prima fase delle indagini sul delitto Impastato siano state altresì volontarie, perché intenzionalmente dirette a

preservare il boss della locale cosca mafiosa, o singoli affiliati ad essa, da un’incriminazione che una serena valutazione di quelle stesse risultanze avrebbe reso probabile.

In realtà, costituisce un dato processualmente acquisito che all’incriminazione di Gaetano Badalamenti— e del suo braccio destro, Vito Palazzolo — si giunse solo molti anni dopo, e in forza delle propalazioni di una serie di ex affiliati mafiosi che avevano intrapreso nel frattempo il percorso di collaborazione con la giustizia e che con le loro rivelazioni, sia pure de relato, suggellarono sul piano probatorio l’ipotesi della matrice mafiosa del delitto. E soprattutto vi si giunse grazie alla specifica e circostanziata chiamata in correità di un collaboratore di giustizia (Palazzolo Salvatore, omonimo del mafioso accusato di essere stato tra gli esecutori materiali del delitto) che proveniva dalle fila della medesima cosca mafiosa capeggiata da Gaetano Badalamenti.

Le accuse di Francesco Di Carlo

Ciò premesso, non si può sottacere che le dichiarazioni di Francesco Di Carlo, nella parte in cui accusa l’allora maggiore Subranni di essersi adoperato, su sollecitazione dei cugini Salvo, per una rapida chiusura dell’inchiesta che escludesse la pista mafiosa, così da fugare anche il semplice sospetto che si trattasse di un delitto ordinato dal boss Gaetano Badalamenti, appaiono tutt’altro che affidabili. Esse sono state già liquidate dai giudici della Corte d’Assise di primo grado di questo processo come prive di riscontri, rimandando però la sentenza appellata, per ogni valutazione conclusiva su eventuali responsabilità del Subranni nell’ipotizzato depistaggio, all’esito di un procedimento che alla data della pronuncia di primo grado era ancora sub iudice. Il procedimento in questione si è concluso con il citato provvedimento di archiviazione, ma, a prescindere da tale esito, deve ribadirsi che le dichiarazioni del Di Carlo, in parte de qua, restano inaffidabili. […].

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