Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci delle motivazioni della sentenza di secondo grado del processo sulla trattativa stato-mafia.


Ora, non v’è chi non veda come siano elementi di mera suggestione quelli che fanno riferimento ai profili personologici di due dei tre personaggi al vertice di altrettanti organismi investigativi e di intelligence che interloquirono con Mannino sul tema della sua sicurezza, e delle iniziative possibili per scongiurare il rischio di un attentato ai suoi danni.

Così per Bruno Contrada. Il 24 dicembre del 1992, e quindi appena due mesi dopo l’ultimo incontro, con l’on Mannino — e con il Generale Subranni — documentato dalle sue agende, egli veniva arrestato con l’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa.

[…] Quel che importa rilevare è che la decisione della Cedu nel caso Contrada non entra minimamente nel merito della contestazione, né mette in discussione le prove a carico o la loro sufficienza a supportare una pronunzia di condanna, o la circostanza che i fatti contestati siano stati provati e quindi accertati; e neppure, a ben vedere, mette in discussione la loro idoneità ad integrare gli estremi del reato di concorso esterno in associazione mafiosa come messo a fuoco nei suoi tratti salienti dalla giurisprudenza affermatasi e consolidatasi a partire — nella valutazione della stessa Cedu — [...]: nulla di tutto ciò.

Sicché, pur essendo venuto meno il titolo di condanna, i fatti comprovanti non l’intraneità, ma la contiguità e la collusione con talune cosche mafiose palermitane o singoli esponenti di spicco delle stesse (da Stefano Bontate a Salvatore Inzerillo a Rosario Riccobono, ma anche Filippo Marchese e lo stesso Michele Greco, secondo le convergenti propalazioni dei collaboratori di giustizia che lo accusavano) restano sostanzialmente accertati.

Ora, al di là del dato temporale che confina le condotte concorsuali in un arco di tempo di circa un decennio, ma assai risalente e largamente anteriore all’estate del ‘92, oltre che legate a contatti e frequentazioni con esponenti mafiosi quasi tutti uccisi nel corso della c.d. seconda guerra di mafia o da anni detenuti e condannati anche all’ergastolo, non si può certo inferirne che l’on. Mannino si fosse rivolto, tra gli altri anche al Contrada perché sapeva di poter contare sulle sue entrature mafiose e quindi di poterlo coinvolgere in iniziative non ortodosse ed anzi stridenti con le finalità istituzionali di un appartenente di un apparato di sicurezza dello stato.

A tanto non arriva neppure la pubblica accusa poiché non risulta che il Contrada sia mai stato indagato per concorso nel medesimo reato di minaccia a corpo politico dello stato per cui si è (separatamente) proceduto a carico del Mannino.

Di contro è certo che all’epoca delle triangolazioni con lo stesso (ex)ministro e con il Generale Subranni — anche sulla vicenda del Corvo – Bruno Contrada, benché già attinto da propalazioni ancora segrete, come le rivelazioni sulla sua collusione anticipate da Mutolo, già nel corso del suo primo interrogatorio al dott. Borsellino, che a sua volta aveva ricevuto le confidenze dell’amico e collega Giovanni Falcone circa i suoi sospetti sulla “infedeltà” dell’ex capo della mobile di Palermo, era ancora saldamente insediato in una posizione ai vertici di uno dei due servizi di intelligence; godeva di massima stima e piena fiducia da parte del capo della Polizia, Vincenzo Parisi (il quale, dopo il sorprendete arresto, farà il diavolo a quattro, protestando contro quello che riteneva essere un clamoroso errore giudiziario [...]), e aveva un ruolo ed una reputazione che gli permettevano di avere interlocuzioni frequenti con eminenti personalità della politica e delle istituzioni, e contatto o incontri, ancora tino a poche settimane dall’arresto, con lo stesso ministro dell’Interno.

Quest’ultimo, infatti, sarà a sua volta bersaglio di polemiche sulla stampa, e persino di interrogazioni parlamentari di cui v’è traccia anche nell’intervento di Nicola Mancino dinanzi alla Commissione parlamentare antimafia in occasione della seduta del 15 gennaio 1993, per non avere con decisione e chiarezza, immediatamente dopo l’arresto del Contrada, preso le distanze da un servitore dello stato sul cui capo pendeva un'accusa così infamante.

E ritenere che, invece, Calogero Mannino fosse, all’epoca, già perfettamente edotto delle contiguità o frequentazioni mafiose di Bruno Contrada sarebbe ancora una volta aggrapparsi ad un assioma indimostrato.

I “contatti” di Subranni

Ebbene considerazioni non dissimili valgono, a fortiori, per i presunti contatti e incontri con il generale Subranni. Con una differenza sostanziale e non di poco conto. Anche il generale Subranni è stato sottoposto a procedimento penale — molti anni dopo i fatti di causa - con l’accusa infamante di concorso esterno in associazione mafiosa; ma tale procedimento si è concluso con un decreto congruamente motivato ed emesso dal gip del tribunale di Caltanissetta su conforme richiesta della procura nissena in data 10 aprile 2012.

Ivi si dava atto come fosse rimasta isolata e priva di riscontri la rivelazione che la signora Agnese Piraino Leto, vedova Borsellino, aveva attribuito al marito, che pochi giorni prima di essere ucciso — e precisamente il 15 luglio 1992, data alla quale fu possibile risalire in quanto la signora collocava con certezza tale rivelazione alla vigilia dell’ultima partenza del marito per Roma, avvenuta il 16 luglio — le aveva confidato che qualcuno, di cui non le disse il nome, gli aveva riferito che il generale Subranni, con il quale egli aveva un rapporto di stima e frequentazione per ragioni professionali, era “punciutu”.

In particolare, erano stati esaminati i collaboratori di giustizia che, all’epoca della rivelazione predetta, il dott. Borsellino aveva già iniziato ad interrogare (Mutolo, Schembri e Messina Leonardo), ma nessuno di loro aveva saputo riferire alcunché in ordine a eventuali rapporti collusivi del Subranni con esponenti mafiosi. E neppure scavando nel bagaglio di conoscenze di nuovo collaboratori di giustizia di acclarato spessore, come Giovanni Brusca era emerso nulla al riguardo, non avendo in particolare il Brusca riferito alcunché in merito al ruolo giocato da eventuali appartenenti all’Arma dei Carabinieri (e segnatamente in merito al Subranni) nella trattativa di cui gli aveva parlato Totò Riina.

Mentre doveva escludersi che il misterioso amico che avrebbe tradito il dott. Borsellino, come dallo stesso confidato alla dott.ssa Alessandra Camassa e al dott. Massimo Russo durante uno sfogo accorato cui s’era lasciato andare in occasione di una visita fattagli dai due giovani colleghi presso il suo ufficio alla Procura di Palermo nel giugno del ‘92, potesse identificarsi nella persona del Generale Subranni: sia perché con quest’ultimo non intercorrevano rapporti di amicizia personale, ma solo di frequentazione per ragioni d’ufficio; sia, e soprattutto, perché, per quanto fosse problematico datare l’episodio riferito concordemente dai dott.ri Camassa e Russo, esso non poteva che essere avvenuto a giugno e comunque prima del 4 luglio 1992, data della cerimonia di saluto dello stesso Borsellino ai colleghi di Marsala che fu anche l’ultima occasione in cui la dott.ssa Camassa lo vide. (E quindi l’episodio in questione doveva certamente essere occorso prima di quella cerimonia).

Di contro, si è accertato che il dott. Borsellino, al rientro dalla trasferta in Germania dove si era recato per andare a sentite alcuni nuovi pentiti, si era trattenuto a Roma per tutta la giornata del 10 luglio e aveva partecipato ad una cena, insieme a Mori e Subranni e altri Ufficiali dell’Arma, trascorrendo poi la giornata seguente in compagnia del generale Subranni, e accettando il passaggio da questi offerto in elicottero per raggiungere Salerno, dove la mattina del 12 luglio il dott. Borsellino partecipò alla festa per il battesimo del figlio del collega Diego Cavaliero. Sicché almeno fino a quel momento, i rapporti con lo stesso Subranni sembravano essere rimasti immutati e improntati a massima cordialità.

Ebbene, la sentenza qui appellata, all’esito di un esame scrupoloso di un compendio istruttorio ancora più vasto di quello vagliato dall’a.g. nissena (perché integrato dalle propalazioni di Di Carlo e Siino, nonché dalla testimonianza de relato del Generale Gebbia sui rapporti con i cugini Salvo, sull’interessamento alle indagini sul sequestro Corleo e sulle iniziative intraprese per il recupero del cadavere del rapito, nonché sull’omissione di atti dovuti in relazione al mancato sequestro di armi da fuoco presenti in immobile di pertinenza dei Salvo), perviene alla conclusione dall’insieme delle risultanze acquisite, tra le quali è meritevole di apprezzamento la testimonianza di Luigi Li Gotti su episodi e circostanze apprese da confidenze fattegli dall’amico e collega avv. Ascari, residuano soltanto elementi idonei a comprovare l’esistenza di rapporti del generale Subranni con i cugini Salvo, con Vito Ciancimino e con Andreotti.

Ma per quanto concerne i primi, le esigenze correlate alle indagini sul sequestro Corleo giustificavano ampiamente che il Generale Subranni, come peraltro da lui stesso ammesso, si trovasse ad incrociare in particolare Nino Salvo, personalmente interessato ad avere notizie dei suocero rapito (e successivamente a tentare di recuperarne almeno il corpo); e comunque il ruolo pubblico per anni ricoperto dai potenti esattori di Salemi, le generiche notizie su un rapporto di reciproca conoscenza non avrebbero alcuna valenza indiziante.

I rapporti con Ciancimino

Quanto a Vito Ciancimino, non hanno trovato il minimo riscontro le propalazioni del Di Carlo, peraltro generiche e indeterminate, oltre che a dir poco tardive, sul fatto che il generale Subranni si sarebbe interessato per non meglio precisati favori a esponenti mafiosi segnalatigli dal Ciancimino.

E quindi residua solo il dato della conoscenza reciproca, comprovato dai due bigliettini da visita a firma del Subranni rinvenuti durante la perquisizione dell’abitazione di Vito Ciancimino in occasione del suo arresto nel novembre del 1984.

In uno dei due il generale Subranni ringrazia per le felicitazioni fattegli pervenire dal Ciancimino, ed è verosimilmente databile alla fine di aprile del 1978, quando il maggiore Subranni venne promosso a tenente colonnello e andò a comandare il Reparto operativo dei carabinieri di Palermo: molti anni dopo che si era conclusa l’esperienza di Ciancimino quale sindaco di Palermo, e in un’epoca in cui egli era già assai discusso non solo per la sua disinvoltura nel mescolare rapporti politici e di affari — che gli sarebbero costati in seguiti la sottoposizione a diversi procedimenti penale per reati contro la p.a due dei quali sfociati in condanne definitive — ma anche per presunti rapporti con esponenti mafiosi, per i quali era stato attenzionato dalla Commissione parlamentare antimafia.

Del resto, l’esistenza di rapporti cordiali tra i due, esplicitamente dichiarata dal Ciancimino in occasione dell’interrogatorio reso al g.i dott. Giovanni Falcone dopo il suo arresto nel novembre del 1984 emerge anche dalla narrazione che il Generale Mori ha fatto dei contatti intrapresi con Vito Ciancimino, se è vero che in occasione di uno dei loro primi incontri (insieme al capitano De Donno), lo stesso Ciancimino gli disse che aveva conosciuto diversi ufficiali dell’Arma tra i quali proprio il Generale Subranni, quando comandava il Nucleo investigativo dei carabinieri di Palermo; e si raccomandò di fargli avere i suoi saluti.

Può apparire, ed è poco commendevole la condotta di un alto ufficiale dei Carabinieri che non si peritava di continuare ad avere contatti o rapporti cordiali con un personaggio così chiacchierato, e sul conto del quale si erano accumulati atti e rapporti giudiziari fin dai primi anni settanta. Ma ciò, come riconosce il giudice di prime cure, in assenza di diverse risultanze può avere un rilievo soltanto “etico” (cfr. pag. 4959).

Né si può trascurare che, sebbene in declino per l’accumularsi di accuse sospetti e rapporti giudiziari su suo conto Ciancimino, tra la fine degli anni ‘70 e l’inizio degli anni ‘80 era un personaggio influente nella vita pubblica e nella realtà politica locale, capace ancora di inserirsi nelle dinamiche di potere e nella competizione tra le correnti interne al partito di maggioranza relativa, anche a livello nazionale.

Inoltre, si registra una singolare assonanza tra le propalazioni del Siino e quelle del Riccio a proposito dell’ambiguo tenore dei rapporti che il generale Subranni non disdegnava di coltivare con personaggi in odor di mafia, come usa dirsi o decisamente intranei all’organizzazione mafiosa.

Siino, che peraltro si è contraddetto sulle circostanze in cui avrebbe fatto la conoscenza di Subranni, ha fatto riferimento ad un approccio o un tentativo di approccio nei suoi confronti per avere informazioni sull’omicidio del colonnello Russo (salvo scoprire che ne sapeva, il Subranni, più di lui). E ad un raffreddamento dei loro rapporti quando Subranni non ricambiò il favore, come invece lui si attendeva, rifiutandosi di dargli notizie sull'indagine cui era interessato per i fatti di Baucina.

A dire di Michele Riccio, all’esito dell’incontro avuto a Roma con i procuratori di Palermo e Caltanissetta otto giorni prima di essere ucciso, Ilardo ebbe a confidargli che Subranni era uno dei suoi superiori di cui avrebbe dovuto diffidare. Ma lo stesso Riccio rammenta altresì che all’epoca dell’istituzione del Ros (3 dicembre 1990) si discuteva del modo in cui dovessero essere impostate le indagini sulla criminalità mafiosa in Sicilia.

E in occasione di una di queste discussioni, Mori confidò a Riccio che Subranni aveva stretti rapporti con Vito Ciancimino, ma senza specificare o aggiungere altro. E tuttavia il discorso verteva sul modo in cui impostare le indagini di mafia in Sicilia e il metodo e gli strumenti e le risorse da impiegare in tale contesto, sicché quel riferimento buttato lì da Mori sembrava alludere alla possibilità di utilizzare Vito Ciancimino, grazie ai suoi pregressi rapporti con il comandante Subranni, come potenziale interlocutore o fonte di informazioni, se non proprio come fonte confidenziale nell’accezione comune del termine.

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