Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci delle motivazioni della sentenza di secondo grado del processo sulla trattativa stato-mafia.


Prima di esporre e poi esaminare nel merito i proposti gravami è opportuno, per una più agevole comprensione delle questioni da approfondire in relazione ai fatti di causa, ricapitolare nelle sue tappe salienti il percorso logico probatorio che ha condotto la Corte d’Assise di primo grado ad affermare la penale responsabilità degli imputati odierni appellanti.

L’imponente mole del materiale istruttorio accuratamente scrutinato dal primo giudice costringe, per economia di motivazione, a farvi solo dei cenni, rimandando per una più compiuta ricognizione delle fonti di prova e della loro valutazione alle pagine della sentenza qui impugnata che le illustrano.

E si cercherà, nell’esposizione che segue, di rispettare e rispecchiare per quanto possibile lo spartito motivazionale e la sua articolazione per capitoli separati, per non alterare la consequenzialità logica degli argomenti trattati. […].

Parimenti, ci si limiterà a qualche cenno per quelle vicende che solo marginalmente hanno incrociato i fatti di causa, e per le posizioni uscite di scena [...]; mentre più spazio dovrà riservarsi alla posizione di Massimo Ciancimino, sebbene questi sia stato assolto dall’imputazione di concorso esterno in associazione mafiosa - e anche in questo caso il pm non ha proposto appello — e condannato per il reato di calunnia in pregiudizio del dott. Giuseppe De Gennaro — e avverso tale pronuncia il pm ha proposto appello ma il relativo procedimento è stato stralciato, su richiesta della difesa e nulla opponendo le altre parti [...] — dovendosi conto delle ragioni per le quali il giudice di prime cure è attivato alla conclusione che nessun uso può farsi delle dichiarazioni del predetto Ciancimino, in quanto quello che era stato presentato dalla pubblica accusa come un teste chiave dell’intero processo si è rivelato essere una fonte inaffidabile.

In “Premessa” alla parte prima della sentenza in esame si segnala come il processo abbia ricostruito la storia recente dell’organizzazione mafiosa “cosa nostra” e, più specificamente, quella che ha visto via via crescere l’influenza dei c.d. “corleonesi”, i quali, muovendo già da un nucleo importante e significativo formatosi sin dagli anni 40-50 (con Michele Navarra e successivamente con Luciano Leggio), avevano infine conquistato l’egemonia, prima nella provincia di Palermo ivi compreso il suo capoluogo (sino ad allora regno incontrastato di Michele Greco e Stefano Bontate) e poi nell’intera Sicilia, con la definitiva consacrazione, come suo capo assoluto, di Salvatore Rima.

L’istruzione dibattimentale ha, però, “fotografato” anche il declino e la sostanziale chiusura di quell’esperienza criminale, a decorrere proprio dal suo apice raggiunto nella stagione delle stragi e conclusosi, di fatto, con l’arresto di Bernardo Provenzano al punto da far dire, ai giudici della Corte d’Assise di primo grado, che: “La “mafia storica” è stata sconfitta dallo Stato, nonostante, verrebbe da dire, i comportamenti di molti esponenti istituzionali, i quali, non rendendosi conto — o in alcuni casi, pur essendo ben consapevoli — degli effetti dirompenti per la stessa tenuta delle istituzioni democratiche, hanno intrattenuto rapporti con esponenti mafiosi. ora per interessi elettorali, ora per agevolare carriere, ora per meri interessi economici personali o di gruppi ristretti».

E il punto di svolta del declino mafioso si è verificato, a parere della Corte, nel gennaio 1994 col fallimento del progettato attentato allo Stadio Olimpico di Roma e con l’arresto di Giuseppe Graviano (insieme a quello del fratello Filippo), che più si era impegnato per tale ulteriore strage, avendo la capacità economica e, soprattutto, l’intelligenza (criminale) organizzativa e direttiva, che, invece, per fortuna di questo Paese, sarebbe, poi, mancata ai residui propugnatori della strategia stragista Leoluca Bagarella e Giovanni Brusca (stante il ruolo più defilato volontariamente assunto da Bernardo Provenzano, il quale, per portare avanti i suoi affari aveva necessità di una

sorta di patto di non belligeranza con lo Stato ): una strage che, se fosse riuscita, avrebbe messo definitivamente in ginocchio lo Stato a fronte delle sempre più pressanti minacce provenienti dall’organizzazione mafiosa siciliana che avevano, ormai, trasceso i stretti confini regionali, coinvolgendo altre realtà criminali (camorra,‘ndrangheta e mafia pugliese) e altri territori di particolare importanza anche per la rilevanza internazionale (come nel caso delle città di Roma, Firenze e Milano).

Il cedimento dello Stato, che, a parere della Corte di primo grado, era di fatto iniziato già dopo le stragi del 1992 per iniziativa di alcuni suoi esponenti ed e proseguito con maggiore evidenza dopo le stragi del 1993, sarebbe divenuto inarrestabile per l‘impossibilità di fronteggiare quell'escalation criminale, senza pari nella storia del Paese in un momento di forte fragilità delle Istituzioni, già travolte dal fenomeno di “mani pulite”, e di conseguente instabilità per l’affacciarsi anche di nuove forze politiche che soltanto col successivo declino mafioso sarebbero riuscite ad acquisire la necessaria autonomia di azione, inizialmente compromessa da risalenti rapporti di tipo economico/elettorale tra taluni suoi esponenti di primo piano e soggetti più o meno direttamente legati a “cosa nostra”.

A riprova dell’immane sforzo che la Corte di primo grado rivendica di avere sostenuto, si citano i numeri più significativi dell’istruttoria dibattimentale (ben 228 udienze, oltre 1.250 ore di dibattimento, oltre 190 soggetti esaminati, tra i quali alcuni rappresentanti dei massimi vertici dello Stato, innumerevoli documenti in formato cartaceo e soprattutto informatico), unitamente alla considerazione che l’accertamento dei fatti sottesi alla principale fattispecie criminosa specificamente contestata, l’art. 338 c.p., hanno spesso reso necessaria la ricostruzione di vicende complesse e mai del tutto chiarite che hanno riguardato la storia repubblicana in un arco temporale ricompreso tra la metà degli anni sessanta e i giorni nostri (dai tentativi di golpe e dalle stragi dei primi anni settanta, al sequestro ed uccisione di Aldo Moro e, più in generale, alla stagione del terrorismo di natura brigatista, alla Loggia massonica deviata della P2 ed al ruolo di Licio Gelli. al sequestro Cirillo, alle stragi di mafia sin dalla c.d. “strage di viale Lazio” e, più in generale, alla interminabile sequela — senza pari nel mondo — di uomini delle Istituzioni uccisi in Sicilia, ai rapporti tra la “cosa nostra” siciliana e quella americana); senza dimenticare, sullo sfondo e quasi a fare da filo conduttore di molte vicende, l’ombra strutture occulte di natura massonica o paramassonica e di esponenti infedeli dei cd. servizi segreti.

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