Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci delle motivazioni della sentenza di secondo grado del processo sulla trattativa stato-mafia.


Delle propalazioni di Massimo Ciancirnino può dirsi provato, dunque, solo ciò che uno dei principali protagonisti, l’imputato Mario Mori, non ha esitato a definire come “trattativa” e che venne intavolata con Vito Ciancimino quanto meno all’indomani della strage di Capaci, prima tramite De Donno e poi anche direttamente dallo stesso Mori.

Così possono dirsi provati il primo approccio tramite De Donno e la richiesta di instaurare, tramite Vito Ciancirnino, un contatto con i vertici di “cosa nostra”, finalizzato a raggiungere un’intesa per porre fine alle stragi. Ne ha riferito Massimo Ciancimino per conoscenza diretta (incontestata perché confermata, appunto, da De Donno e Mori); ma sono fatti che emergono da pur reticenti accenni dello stesso Vito Ciancimino, nonché dalle stesse ricostruzioni fatte dai predetti imputati Mori e De Donno sin da quando sono stati sentiti, in qualità di testimoni, nel processo per le stragi del continente svoltosi a Firenze; ed ancora, per quanto riguarda l’imputato Mori, anche nel memoriale consegnato alle Procure della Repubblica di Firenze e Caltanissetta rispettivamente l’1 agosto e il 23 settembre 1997 (doc. n. 41 della produzione del pm).

Analoghe considerazioni valgono per l’identificazione nella persona del dott. Antonino Cinà del canale allora individuato da Vito Ciancimino per contattare i vertici di Cosa Nostra e, specificamente, il suo allora incontrastato capo, Salvatore Riina

: anche in questo caso, il nome dell’odierno imputato Cinà, pure indicato da Massimo Ciancimino, era stato già fatto nella dichiarazioni rese all’A.G. dal padre Vito suffragate sul punto dal racconto di Mario MORI (con la precisazione che questi avrebbe appreso l’identità del Cinà soltanto a vicenda conclusa).

E nonostante qualche difformità sulla sequenza degli incontri tra De Donno-Mori e Vito Ciancimino, emerge dalla ricostruzione dei primi due (e, specificamente, di Mori nei memoriale sopra richiamato) uno sviluppo della “trattativa” del tutto concordante con l’iter riferito da Massimo Ciancimino e, in particolare, laddove si evidenzia quel passaggio da una prima fase in cui l’intendimento di Mori-De Donno era quello di evitare nuove stragi ad una seconda fase mirata alla cattura del latitante Rima.

Sennonché, chiosa la sentenza, le propalazioni di Massimo Ciancimino a questo punto risultano addirittura superflue, perché altri elementi probatori consentono, ben al di là di quanto dichiarato dallo stesso Ciancimino, di dare per accertato che:

  •  da un lato, Vito Ciancimino, tramite il Cinà, riuscì effettivamente a raggiungere i vertici dell’associazione rnatìosa allora rappresentati soprattutto da Rima e Provenzano (sia pure quest’ultimo con una posizione più defilata e meno appariscente, ma pur sempre con un ruolo direttivo);
  • e, dall’altro, che i medesimi vertici mafiosi ebbero la consapevolezza di una disponibilità dello Stato ad intavolare una “trattativa” certamente già nel periodo ricompreso tra le stragi di Capaci e di via D ‘Amelio indipendentemente dalla collocazione temporale dei diretti colloqui intervenuti tra il Col. Mori e Vito Ciancimino per effetto dei primi approcci — pur eventualmente del solo De Dotino — certamente risalenti ai giorni successivi alla strage di Capaci.

Costruite menzogne su una sola verità

Ma ecco che su quest’unico nucleo di verità, per asseverare il quale può benissimo farsi a meno delle propalazioni di Massimo Ciancimino, si innestano le sovrastrutture artificiosamente create da quest’ultimo e che vanno espunte dal compendio probatorio, a parere del primo giudice, perché prive di concreti riscontri o perché assolutamente inverosimili o, anzi, più probabilmente, frutto della fantasia del dichiarante.

La prima ditali sovrastrutture è costituita dalla ricostruzione dei contatti diretti tra Vito Ciancimino e Bernardo Provenzano. che, seppure certamente avvenuti, non possono essersi verificati, ad avviso del primo giudice, con le modalità ed i tempi indicati da Massimo Ciancimino, non essendovene comunque alcun riscontro.

È ben possibile, anche sulla scorta di quanto riferito al riguardo da altre fonti (come Lipari) che il Provenzano, negli anni settanta, quando non ancora assurto alla notorietà dei decenni successivi e pur essendo già latitante si muoveva più liberamente, si spingesse ad andare a trovare a casa Vito Ciancimino (sebbene una frequentazione nei termini riferiti da Massimo Ciancimino non ha trovato conforto nelle dichiarazioni degli altri familiari del Ciancimino neppure con riferimento al fantomatico “ingegnere Lo Verde”); ma è inverosimile, perché incompatibile con sicure acquisizioni probatorie sulle modalità e le cautele con cui lo stesso Bernardo Provenzano conduceva la sua latitanza già a partire dagli anni ‘80 (avvalendosi di una rete di favoreggiatori che gli ha permesso di preservare la sua latitanza per oltre quaranta anni grazie ad un sistema di protezione fondato su contatti segmentati e limitati a soggetti di volta in volta sostituiti ed ad un sistema di comunicazione sempre mediato e mai diretto), che, ancora negli anni novanta e successivamente addirittura sino al 2002, quando già massima era l’attenzione sulla sua persona, possa avere avuto i contatti diretti con Vito Ciancimino (peraltro, a sua volta, già coinvolto in vicende giudiziarie), sia a Palermo che a Roma, recandosi nelle abitazioni dello stesso.

E non meno inverosimile è, a parere del primo giudice, che possa avere avuto contatti diretti con Massimo Ciancimino, incontrandolo ripetutamente da solo più volte anche talvolta nello stesso giorno e nello stesso luogo, e ricevendo direttamente dalle mani dello stesso le lettere di Vito Ciancimino, o consegnando altrettanto direttamente a Massimo Ciancimino i “pizzini” destinati al padre di quest’ultimo, come nell’episodio dello scambio di messaggi che Massimo colloca all’indomani della strage di via D’Amelio, quando altissima era l’attenzione delle Forze dell’Ordine, ed era inutile, oltre che inverosimile, che il boss latitante si esponesse tanto, e solo per ricevere dalle sue mani una busta che poteva essergli recapitata attraverso la catena di favoreggiatori della sua latitanza.

Né a fugare perplessità che rendono del tutto incredibile la ricostruzione del giovane Ciancimino può bastare la spiegazione fornita da Massimo Ciancimino riguardo alle assicurazioni che i Carabinieri avrebbero fornito, per garantire la trattativa che lo stesso Massimo Ciancimino non sarebbe stato seguito. Non si vede infatti come in quella prima fase della “trattativa”, in cui le “parti” si stavano studiando reciprocamente per comprendere quali fossero le reali intenzioni o i possibili sbocchi dell’iniziativa intrapresa dai carabinieri, il Provenzano potesse avere già acquisito una certezza di impunità tale da indurlo ad abbandonare le più elementari regole di prudenza ordinariamente seguite da un latitante, e a maggior ragione per un esponente di assoluto rilievo dell’organizzazione mafiosa che poteva servirsi di fedeli gregari o intermediari per un’attività meramente materiale come il ritiro di una busta o la consegna di un pizzino.

Ma anche ammesso che il Provenzano avesse deciso di fidarsi dei Carabinieri, osserva ancora la Corte, non si vede quale garanzia egli avesse che, invece, altre Forze di Polizia, all’oscuro di quella “trattativa” iniziata dai Carabinieri, non fossero sulle sue tracce e potessero, quindi, arrestano approfittando di quell’oggettivo abbassamento delle cautele abitualmente adottate nei movimenti dei grandi latitanti.

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