La Resistenza è stata la dimostrazione del meglio di cui gli italiani fossero capaci: un’assunzione di responsabilità, una volontà di riscatto, una capacità di costruire qualche cosa di serio e di pulito. A questa definizione elementare siamo affezionati, ci piace sempre riconoscerla quando altri popoli si muovono verso quel punto alto, con lo stesso coraggio, con la stessa determinazione, con la stessa volontà di serietà e pulizia.

In queste ore, dispiace dover constatare che una simile definizione sia negata alla resistenza ucraina, e proprio da parte di chi ha sempre strenuamente difeso la Resistenza e il principio di autodeterminazione dei popoli. Chi dovrebbe essere il primo a notare le convergenze, oggi si attarda in sottili distinguo. Come se gli ucraini fossero figli di un dio minore. Questi oscillanti metri di giudizio ci rendono sospettosi. Che in Italia il diritto alla libertà sia difeso a capriccio?

Il paragone

In molti conflitti del secondo dopoguerra il paragone con la Resistenza è stato presente. Non si erano mai ascoltati i sofismi che si leggono in queste ore. Risuonava nelle piazze, l’elogio del partigiano, là dove si trattava di applicarla ai Vietcong contro i marines, agli algerini contro i francesi, all’Olp di Arafat dopo la guerra dei sei giorni.

Il diritto di fregiarsi del titolo di partigiano non veniva negato a nessuno. Gli ucraini no. Intorno allo slogan «Palestina libera» il lessico resistenziale è sempre stato d’uso corrente: non ha mai fatto scandalo che il fazzoletto tricolore fosse indossato insieme alla kefiah. Sia chiaro. Non mancava in quella logica comparativa un fondo di verità, che potrebbe servire di lezione anche per l’oggi: il desiderio di autodeterminazione di un popolo nasce e si rafforza quando si scontra con una forza esterna.

Coloro che contestano il nazionalismo ucraino dimenticano che l’idea di nazione cova sotto la cenere, matura e si consolida durante le occupazioni straniere. Lo hanno capito, a loro spese, gli israeliani, i loro storici di ultima generazione ce lo hanno spiegato molto bene; la coscienza nazionale ucraina si va rafforzando in questa guerra, ma nessuno ne riconosce la legittimità.

Sono le stravaganze avvocatesche che si leggono in questi giorni che offendono chi abbia a mente e si strugga per quel punto altissimo che gli italiani hanno saputo toccare nei venti mesi di guerra di liberazione. Quel punto sublime, piaccia o no, lo si rivede nella strenua difesa di Kiev.

Se la memoria della Resistenza avesse ancora un significato, se quella memoria occupasse ancora un autentico ruolo politico nell’Italia odierna,  non fosse un mero flatus vocis strumentale, vedremmo figli e nipoti di quei partigiani, anche membri dell’Anpi, alzare la loro voce, scendere in strada per invitare i giovani ad ascoltarli, per esprimere la  speranza che si formino, come in Spagna nel 1936, le Brigate internazionali. Lo spiega molto bene Michael Walzer in un’intervista apparsa sull’ultimo numero di «Una città». Nulla s’è visto invece fino ad oggi, solo dei sofismi.

Il dibattito

A fronte dell’equilibrato e al tempo stesso appassionato intervento di Luigi Manconi sulla «moralità della resistenza» in Ucraina, apparso su Repubblica, chiaramente (e correttamente) ispirato al sottotitolo dell’opera di Claudio Pavone sulla Resistenza in Italia, si sono levate soltanto parole sdegnate. Lea Melandri sul Manifesto ha scritto che le guerre sono portatrici di messaggi viriloidi, dimenticando il ruolo che le donne hanno avuto nella lotta partigiana in Italia, anche in azioni di guerra, armi alla mano.

«Quando gli alleati fornivano armi ai partigiani», ha scritto, sempre sul Manifesto, Alessandro Portelli, «erano già in guerra con la Germania; non solo, ma quella guerra la stavano vincendo e, particolare non secondario, avevano già gli stivali sul terreno in Italia, ed erano loro, non gli invasori tedeschi, che bombardavano le nostre città occupate col fine di far durare di meno la guerra». Portelli ha ragione nel dire che «il paragone con i resistenti ucraini regge solo se: a) pensiamo di essere già in guerra con la Russia; b) pensiamo di vincerla militarmente; c) pensiamo che l’invio di armi abbrevierà il conflitto anziché prolungarlo, incaricando gli ucraini di fare la guerra con le nostre armi per nostro conto».

Quello che trovo sbalorditivo - davvero una stravaganza avvocatesca inattesa di uno studioso di vaglia - è quel porre l’accento principale sui bombardamenti degli alleati come se nel 1943-1944 quello fosse il male maggiore. E non spendere nemmeno una parola sulla somiglianza delle stragi di civili a Mariupol con la distruzione dei villaggi e le razzie tedesche post 8 settembre.

Proprio Pavone ci ha spiegato che tra il 1943 e il 1945 si combatterono in Italia tre guerre: una guerra civile fra italiani, una guerra contro l’invasore tedesco e una guerra di classe. Solo la terza di queste guerre fu esclusivo appannaggio delle Brigate Garibaldi. Nelle altre due militarono uomini e donne di provenienza politica diversa.

La moralità della resistenza

La moralità della resistenza se studiata con l’onestà e il rigore di Pavone può offrire parametri utili per comprendere altre lotte di liberazione: non ha confini né di spazio, né di tempo, perché riguarda la legittima difesa della propria terra quando si è invasi da una forza straniera. Curioso che i partigiani dell’Anpi, che oggi arricciano il naso quando qualcuno confronta Galimberti con un partigiano ucraino, per molti anni hanno fatto fuoco di sbarramento a Pavone per aver fatto entrare in quella tripartizione la categoria di guerra civile. Anche con buone motivazioni ribattevano che la Resistenza fu “solo” lotta contro lo straniero tedesco. Non è strano adesso questo oblio, questo silenzio?

I sofistici oppositori negano agli ucraini il diritto a resistere, ma si guardano bene che il denominatore comune fra la lotta di ieri e quella degli ucraini oggi è la prima delle tre guerre indicate da Pavone: la guerra contro i tedeschi.

Donatella Di Cesare (La Stampa, 14 marzo) invita a non confondere il valore generico del verbo “resistere” con il significato politico della Resistenza: «In Ucraina non c’è una guerra civile, non ci sono partigiani che combattono contro i fascisti. A meno di non voler inscrivere un miliziano ucraino nella Brigata Garibaldi.

A confondere qui le acque sono i politici con l’elmetto, forse per timore di non essere seguiti dai propri elettori». In Italia non mancano, purtroppo, i politici con l’elmetto, ma i pacifisti con il finto ramo d’ulivo vanno sempre guardati con sospetto.

A parte il fatto che non mi sentirei di escludere la presenza in terra di Ucraina di collaborazionisti filo-russi, la cui somiglianza con i repubblichini di Salò temo sembrerebbe impressionante ai nostri padri partigiani. Qui fa difetto la logica, tanto più se a formulare una tesi così bizzarra non è una politologa, né una storica della Resistenza italiana, ma una filosofa. Per Di Cesare è corretto parlare di resistenza solo in un contesto di guerra civile.

Secondo questo modo di ragionare i partigiani combattevano solo contro i fascisti poco e gli ucraini potranno avere il nostro aiuto solo se saranno così bravi da dimostrarci che stanno combattendo una guerra civile.

La lotta in Italia

Di Cesare ha l’ossessione delle Brigate Garibaldi, ma dimentica come nella lotta di liberazione in Italia vi erano anche cattolici, giellisti rosselliani che vedevano nella lotta contro i tedeschi un proseguimento delle guerre d’indipendenza del Risorgimento, nazionalisti democratici mazziniani che hanno dato fra l’altro alla Resistenza la migliore delle definizioni: una guerra per bande. Finanche «autonomi» monarchici volevano cacciare lo straniero. Un’idea di nazione non necessariamente fascistoide o viriloide si sviluppa sempre quando il proprio paese è occupato da un esercito nemico.

«Pietà l’è morta» si iniziava a cantare nell’autunno del 1943 e ho l’impressione che si continui a ripetere nei rifugi sotterranei di Kiev, dove uomini e donne affidano la loro inesperienza alla lezione dei loro «piccoli maestri», esattamente come era accaduto all’azionista Luigi Meneghello con la lezione di Antonio Giuriolo e all’autonomo Beppe Fenoglio, che grande scrittore non sarebbe diventato senza gli insegnamenti di un filosofo come Piero Chiodi. Negare queste evidenze significa affidarsi a maestri non solo piccoli (di statura intellettuale), ma forse anche cattivi. Sarebbe come dire che Fenoglio e Meneghello sono vissuti invano.

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