Sono migliaia i visitatori che quest’anno, come accadeva prima della pandemia, sono tornati a visitare i padiglioni della fiera di Rimini dove mercoledì si è concluso il Meeting di Comunione e liberazione.

Molti sono venuti per assistere al ricco programma di incontri politici, religiosi e culturali. Pochi, forse, si aspettavano di imbattersi in storie di violenza, malattia, stupro e cannibalismo. Eppure usciti dai tornelli della fiera, sulle navette che portavano alla stazione, più che di Enrico Letta e Matteo Salvini, si parlava proprio delle storie strazianti raccontate nella mostra dedicata a Rose Busingye, l’infermiera ugandese che da decenni aiuta le donne malate di Aids.

Crimini in Uganda

Le donne di Rose sono le vere protagonista dell’esposizione. Quasi tutte sono state vittime della Lord’s Resistance Army guidata dal famigerato Joseph Kony, oppure delle altre milizie cristiane che hanno operato a lungo nel nord del paese con estrema brutalità e spesso utilizzando bambini soldato.

Nella prima sala della mostra, quella che negli spettatori lascia le impressioni più forti, viene mostrato un video in cui due donne raccontano cosa è accaduto nei loro villaggi quando sono arrivati i ribelli, come hanno visto uccidere figli e mariti, come sono state costrette a cibarsi di pezzi di altri esseri umani e di come sono state reclutate nelle milizie e spinte a commettere le stesse atrocità che avevano subito.Terminata la guerra e ricacciati i ribelli nel profondo della foresta, le donne sopravvissute sono tornate nei loro villaggi con lo stigma dell’Aids, spesso contagiate durante le ripetute violenze sessuali, e con quello dei crimini che i ribelli le avevano obbligate a compiere. Cacciate dalle loro famiglie e spesso sentendosi loro stesse creature indegne di vivere. Un tema, quello del disprezzo personale, che torna continuamente per tutta la mostra, intitolata non a caso “Tu sei un valore”. Molte di queste donne sono state aiutate da Rose Busingye. 

«La Rose»

Nel marzo del 2000, un gruppo di immunologi specializzati in Aids, accompagnati da un reporter della rivista Science, stava visitando l’Uganda, uno dei paesi più colpiti dalla malattia. A guidarli c’era Rose Busingye, all’epoca 32enne e già impegnata nella lotta contro la malattia. L’ultima tappa del tour che Busingye aveva organizzato era la baraccopoli di Kireka, vicino alla capitale Kampala, dove la sua ong, Meeting Point, aiutava 120 donne, tutte malate di Aids.

Il capo del gruppo, l’immunologo Mario Clerici, rimase molto colpito. «I ricercatori che si occupano di Aids – disse al reporter che li accompagnava – dovrebbero venire qui a vedere cosa fa questa malattia. La maggior parte di noi a malapena ha visto un vero malato. Qui ti rendi conto di quanto sia orribile. Lo puoi quasi toccare».

Sono passati 20 anni e l’ong Meeting Point è cresciuta. Oggi aiuta oltre duemila donne e gestisce una scuola per i loro mille figli intitolata a Luigi Giussani, sacerdote e carismatico fondatore di Comunione e liberazione, morto nel 2005.

Nata nel 1968 a Kampala, Busingye ha conosciuto Comunione e liberazione grazie a un sacerdote comboniano che lavorava nel paese. Leggendo un foglio realizzato dal movimento, venne a sapere dell’esistenza dei Memores domini, quello che i membri di Cl chiamano il «gruppo adulto», laici che fanno promessa di obbedienza, povertà e castità, e decise di entrarne a far parte. In questo modo conobbe Giussani e la mostra si dilunga molto sul loro rapporto. 

Busingye è rimasta a Rimini fino all’ultimo giorno del Meeting, ma quando l’abbiamo visitata gli sforzi e la tensione di questi giorni avevano avuto momentaneamente la meglio su di lei. Al suo posto, c’era un gruppo di ragazzi italiani, anche loro Memores domini, che lavora con lei in Uganda. Quasi tutti provenienti dalla Lombardia, si riferiscono a Busingye invariabilmente come «la Rose».

Meeting e cooperazione

Tra loro il curatore della mostra, Matteo Severgnini, un cremasco di 39 anni che vive in Uganda dal 2012. Laureato in filosofia alla Cattolica di Milano, dove ha conosciuto Comunione e liberazione e deciso di entrare nel «gruppo adulto», Severgnini è arrivato in Uganda poco dopo l’inaugurazione della scuola intitolata a don Giussani.

Racconta che Busingye avrebbe voluto aprire un ospedale, ma le donne della ong volevano una scuola per i loro figli e alla fine l’hanno spuntata. «Hanno venduto in tutto 48mila collane fatte da loro – dice – e con il denaro hanno costruito l’edificio. Mi ha colpito perché loro insistevano per avere una “bella” scuola. Ci ho pensato e mi sono reso conto che le mie scuole in Italia non sono mai state “belle”. Lo sai cosa facciamo bello in Italia?». Si ferma per un secondo e aggiunge: «Le banche».

Questi ragazzi italiani che da cinque o dieci anni vivono in Uganda forniscono un discreto contrasto con il resto del Meeting. Con i loro pantaloni corti cargo e i sandali, sembrano usciti da un centro sociale quando sono messi a confronto con la maggior parte degli altri ragazzi e dei volontari, in buona parte arrivati dalle migliori università e scuole di specializzazione italiane.

Tra le molte anime del mondo cattolico, Comunione e liberazione non è famosa per essere quella più vicina ai paesi in via di sviluppo. Al Meeting di quest’anno, il grande padiglione dedicato alla cooperazione internazionale era un grande spazio a malapena riempito da uno stand del ministero degli Esteri e uno della Fao.

La mostra era, almeno in parte, allestita per questo tipo di pubblico non necessariamente appassionato della storia della decolonizzazione africana. In un’ora e mezza di visita non viene fatto sostanzialmente alcun riferimento al contesto politico e sociale dell’Uganda. Non c’è una sola mappa del paese e praticamente nessuna data.

Severgnini spiega che è una scelta voluta. «La nostra idea è che l’esperienza di abbandono e di dolore è comune a tutti, anche se non tutti l’hanno vissuta all’estremo come queste donne – spiega – Le loro sono storie particolari, ma che intercettano le necessità di tutti».

È una scelta comprensibile per una mostra destinata a un pubblico religioso e allestita da un gruppo di laici credenti, che considerano la fede un elemento centrale del loro lavoro.

Per chi ha una formazione diciamo “marxista” in cui storia, economia e rapporti di potere sono elementi essenziali per comprendere qualsiasi fenomeno, è naturale non condividere questa scelta. Ma tenere fuori il contesto accentua l’elemento universale e salvifico dell’esperienza. 

I contrasti

La fede religiosa e l’impegno all’aiuto internazionale, però, possono anche entrare in contrasto. L’Uganda, ad esempio, è uno dei paesi africani dove la comunità Lgbt è sottoposta alle persecuzioni più dure, a volte con la complicità del clero locale.

Mentre le Nazioni Unite e l’Organizzazione mondiale della sanità sostengono l’utilizzo del preservativo per proteggersi dall’Aids, la chiesa cattolica rimane ufficialmente contraria all’utilizzo degli anticoncezionali.

Severgnini comprende i contrasti, ma è pragmatico sulla questione: «La strategia in Uganda prevede astinenza, fedeltà e contraccezione. Quando falliscono le prime due si può pensare alla terza». 

La parte più commuovente della mostra si svolge nella terza sala, quando la guida racconta di quando nel 2004 le donne dell’ong sono venute a sapere dell’uragano Katrina che aveva colpito New Orleans e hanno deciso di inviare alla città un piccolo aiuto.

Normalmente si guadagnano da vivere rompendo sassi per farne ghiaia: 90 centesimi di euro per otto ore di lavoro al giorno usando piccoli martelli costituiti da un bastoncino e una rondella dentata di metallo. Lavorando il doppio e risparmiando, sono riuscite a mettere insieme 900 dollari che hanno spedito negli Stati Uniti. Andrea, il volontario che fa da guida durante la mostra e che da cinque anni vive in Uganda, si mette a piangere mentre lo racconta.

Dopo la commozione iniziale, però, è difficile non domandarsi se non ci sia qualcosa di mostruosamente ingiusto in tutto questo. Donne poverissime, malate, ferite nel corpo e nella mente, impegnate in lavori estenuanti e mal pagati che donano soldi al paese più ricco del pianeta.

«È quello che ha detto l’ambasciatore americano in Uganda quando è venuto a sapere della donazione – dice Severgnini – una delle donne gli ha spiegato che loro soffrono per il mondo, senza distinzioni di nazione, lingua o colore. E per questo si sono sacrificate».

Il loro sacrificio però è stato di qualcosa di materiale, denaro con cui ad esempio potevano comprare del cibo. Severgnini sorride e dice: «A volte però c’è qualcosa di più importante anche del cibo».

Siamo a un mondo di distanza dalle accuse che negli anni in molti hanno mosso a Madre Teresa, quella di glorificare la sofferenza e il sacrificio senza intervenire per alleviarli, ma una tenue eco di quel che accadeva nelle baraccopoli di Calcutta, sembra di poterla sentire arrivare anche da Kampala.

Per Severgnini le cose stanno diversamente. Senza questa dimensione di crescita personale di «commozione per il mondo», come la definisce, non si va da nessuna parte, dice. «I progetti di aiuto fatti solo per progetti di aiuto non servono a nulla. Prima di incontrare la Rose queste donne ricevevano medicine contro l’Aids, donate dai programmi di aiuto. E sai cosa facevano? Le buttavano via. Perché non avevano una ragione per vivere».

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