Poco prima delle 9:30 del mattino nel lungo corridoio dell’Icam c’è una fila di passeggini e di bambini pronti per andare a scuola o all’asilo. Al di là della porta blindata che divide le camere e gli spazi comuni dalla portineria c’è la zona residenziale di Dateo, a est di Milano. La struttura in cui vivono i bambini è un istituto a custodia attenuata per madri: aperto nel 2007 – il primo in Italia – permette alle detenute di scontare la loro condanna insieme ai figli piccoli, spesso tra gli zero e i tre anni.

Anche se è parte integrante della Casa circondariale di San Vittore, il carcere milanese che col tempo e i cambiamenti della città è passato dall’essere in periferia a incrociare una delle vie più importanti per il centro, l’Icam è un mondo a sé tra le palazzine anni ‘20 e la lunga ciclabile di corso Plebisciti. Lo sottolineano anche gli agenti di polizia penitenziaria alla portineria, mentre mi identificano. Hanno lavorato entrambi a San Vittore e «questo è un carcere diverso, un luogo che funziona», dicono. Gli agenti che lavorano all’Icam sono sia uomini sia donne ma i primi stanno in portineria, perché solo le seconde possono entrare a contatto con le detenute e i loro bambini.

Arancione, giallo, verde, blu

Una volta salutati i figli pronti per la scuola, la giornata delle donne detenute è tutt’altro che finita. Su una bacheca sono appese le attività quotidiane: il corso di bigiotteria, di sartoria e di parrucchiera (non sempre tutti attivi); l’attività scolastica con un insegnante, il “gruppo di parola” e i colloqui con i familiari. «Ognuna poi ha un lavoro assegnato», dice una delle detenute indicando il foglio che suddivide «le lavoranti» per le mansioni. Percepiscono uno stipendio mensile, seppur minimo, che permette loro di essere responsabili per sé stesse e i propri figli. «A turno ci occupiamo di cucinare pranzi e cene, di pulire le stanze e gli spazi comuni, di controllare le scadenze degli alimenti». Le detenute dell’Icam possono muoversi liberamente negli spazi e stare con i loro figli nella ludoteca anche di notte, se necessario per tranquillizzarli in situazioni particolari.

Nel corridoio che si affaccia sulle camere sono appesi in bella mostra i dipinti, le fotografie dei compleanni con i bimbi e vari lavoretti delle donne che sono passate dall’Icam negli anni. Ci sono molti colori ovunque. L’arancione, il giallo, il verde, il blu.

L’entrata che dà sul corridoio e separa le sezioni dalla portineria dell’Icam di Milano

Venire qui, per le madri, è una scelta. Sono donne perlopiù straniere, e di etnia Rom, con famiglie numerose a casa. Sono detenute, ma non smettono di essere madri. Condannate per vari reati, o a scontare l’accumulo di anni di pena, scelgono l’Icam e non il carcere. Da fuori può sembrare un controsenso: chi vorrebbe portare il proprio bambino in un carcere? Un dubbio e una curiosità legittimi che, racconta la dottoressa Marianna Grimaldi, «si scontrano con la realtà di chi fuori non ha una rete sociale alla quale lasciare i figli. Sono poche le donne italiane che passano di qui perché possono contare spesso su una famiglia o un legame, ed evitare che i bambini vivano questo posto».

Scuola e assistenza sanitaria

Grimaldi è funzionaria giuridica pedagogica all’Icam di Milano dal 2010, ne conosce la filosofia e l’approccio sin dall’inizio e coordina cinque educatrici tra pedagogiche e sanitarie. È attraverso di lei che si scorge il senso di questo luogo, e del ruolo che ha per le donne, i bambini e per la comunità cittadina che lo accoglie.

L’Icam è nato proprio in via sperimentale per tutelare i figli minori delle detenute madri, evitare loro il trauma di una “normale” carcerazione scandita dal rumore dei chiavistelli che si aprono e chiudono, dalla vista di agenti di polizia penitenziaria in divisa e di tutto ciò che comporta una struttura totalizzante come il carcere.

Come racconta Grimaldi, «la vita per queste donne è stata complicata, e lo sarà anche quando usciranno da qua. Intanto possiamo garantirgli un percorso scolastico, di valori e culturale, che non hanno sperimentato prima nella loro esistenza». Due elementi importanti per le donne detenute sono infatti la scuola e l’assistenza sanitaria.

Due volte a settimana il professor Antonello Soscia del Centro provinciale per l’istruzione degli adulti (Cpia) di Milano incontra le donne detenute dell’Icam per corsi di alfabetizzazione e di italiano di base. Ha scelto di lavorare anni fa nelle carceri ed è arrivato all’Icam perché struttura afferente a San Vittore. «Qui cerco di aiutare le donne ad avere un bagaglio culturale e scolastico minimo, portandole se riesco agli esami di licenza elementare o media» dice seduto a un tavolo della biblioteca.

Insegnare anche a San Vittore, perlopiù a «giovani arabofoni o nordafricani» dice, lo rende un’altra figura importante per capire la filosofia dell’Icam di Milano. «Nelle altre carceri se vuoi puoi marcire in un angolo, nessuno ti ferma. Qui invece no». Entrare all’Icam con i propri figli è infatti una responsabilità e una possibilità allo stesso tempo. Il lavoro delle detenute è quotidiano e rende l’Icam un luogo totalmente autonomo: dai pranzi alle cene, passando per le pulizie e l’organizzazione dello spazio appunto. Essere in poche, circa una decina, significa lavorare tutte e tutti i giorni.

La biblioteca dell’Icam di Milano dove le donne detenute incontrano il professor Soscia e possono leggere

Chiara, educatrice professionale che lavora per l’azienda ospedaliera Santi Paolo e Carlo, svolge un ruolo ibrido all’Icam. «Non ho competenze né mediche né infermieristiche, ma mi occupo di prevenzione e tutela della salute della donna e soprattutto dei bambini» dice parlando nella sala colloqui dell’istituto «Quello che faccio è dare ai bambini la stessa prospettiva di infanzia che hanno i loro coetanei dall’altra parte della strada».

Un lavoro visibile e invisibile, fatto di piccole azioni quotidiane che trasmettono buone abitudini di vita alle madri cercando di valorizzarne il ruolo. «Mi rapporto quotidianamente con le tre pediatre di riferimento, con il pronto soccorso se necessario e con le psicologhe, cercando di prevenire e tenere sotto controllo eventuali problemi di salute dei bambini. E con le madri, chiedendo loro come stanno» continua l’educatrice. Spesso le donne detenute che arrivano all’Icam non hanno mai visto un ginecologo o non hanno mai sottoposto i figli alle vaccinazioni obbligatorie.

Il lavoro delle operatrici è riconosciuto dalle detenute. «Quando mia figlia sta male e dev’essere curata per qualsiasi ragione, riceve sempre assistenza» racconta una di loro. È detenuta da dieci mesi, e non era mai stata in carcere prima. «Non so com’è un carcere diverso da questo, ma per me non cambia: il carcere è non avere la possibilità di stare vicino ai miei figli». Con lei c’è la più piccola, gli altri cinque sono a casa con il padre.

Una visione diversa

È difficile capire chi è chi, all’Icam. Gli educatori e la dottoressa Grimaldi non indossano cartellini o altri segni distintivi che rimandano al ministero della Giustizia o allo stato, gli agenti sono senza divisa e si differenziano solo per il grosso mazzo di chiavi che hanno al collo o in mano.

«Noi siamo detenzione» ricorda Grimaldi. «Non siamo alternativi a nulla se non a una visione diversa di carcere: qui prevale un modello comunitario dove l’aspetto della tutela del minore è il fulcro di tutto». I confini ci sono e sono ben chiari, sia per le donne detenute sia per i bambini: l’Icam non è casa ma un carcere, il rapporto con gli operatori è strutturato, le regole sono molte e il controllo è ovunque. Mantenere tutto ciò senza divise, situazioni di deprivazione, disagio e aggressività è ancor più difficile però, perché impone che tutti riconoscano i ruoli e i limiti degli altri in un processo continuo e quotidiano.

All’esterno dell’Icam c’è un giardino che tenta di riprodurre i parchetti che si vedono nei quartieri della città. Uno spazio che serve, ma che non è mai abbastanza. «Abbiamo scelto la scuola e l’asilo nido più lontani rispetto al carcere perché hanno un vero giardino. I nostri bambini sono già molto deprivati rispetto agli altri, e sapere che per tutta la primavera, l’estate e l'autunno possono stare al parco è sicuramente un sollievo», continua Grimaldi.

Calare l’Icam all’interno del quartiere non è difficile, seppur da fuori possa sembrare il contrario. «Il carcere ti chiude, e il quartiere si chiude al carcere» continua l’educatrice, «ma per i bambini non può essere così». Nel tragitto per la scuola mano nella mano con le educatrici i bambini incontrano il panettiere, il personale dei bar, le persone che entrano ed escono dall’ospedale vicino, il parroco, i portieri dei palazzi, l’edicolante. Tutti sanno chi sono. «Il nostro rapporto con il quartiere è fondamentale per noi. È stata una valvola di libertà che ci consente di uscire, di attraversare il territorio senza negare chi siamo, chi sono i bambini», dice Grimaldi entusiasta.

Non a torto, in realtà, visto che la responsabilità della vita futura di bambini e bambine che abitano l’Icam con le madri detenute è il fulcro del suo lavoro. La scuola, poi, ha fatto la sua parte. «Ci hanno aiutati in un lavoro di inclusione difficile, spiegando agli altri genitori chi sono i bambini compagni dei loro figli».

I cartelloni realizzati per il 25 novembre, appesi nella sala colloqui dell’Icam di Milano

In tutto il paese gli Icam sono cinque: uno non è funzionante (a Cagliari), e gli altri si trovano a Lauro (in provincia di Avellino), a Torino, a Venezia e appunto a Milano. Secondo il primo report sulla carcerazione femminile pubblicato lo scorso anno dall’associazione Antigone, le donne detenute al 2022 sono 2.365. Poco sopra il 4 per cento dell’intera popolazione carceraria italiana. Poche madri detenute sono recluse negli Icam, mentre la maggior parte è ospitata nelle carceri sparse per il paese. «La sezione nido è qualcosa di molto più simile al carcere e molto meno simile a qualunque altra cosa» commenta Grimaldi sul punto. “Lì prevalgono un regolamento stringente e l’esecuzione della pena secondo i principi della detenzione carceraria. Ci sono agevolazioni sì, ma non sono mai in funzione della cura del minore».

Tamar Pitch, professoressa di Sociologia del diritto all’università di Perugia, ha raccontato ad Antigone come gli Icam siano l’unica parte innovativa del sistema carcerario italiano attuale rispetto agli anni ‘90. Il carcere non è un luogo adatto ai bambini, e non lo sarebbero nemmeno le sezioni nido all’interno delle strutture penitenziarie.

L’Icam di Milano, poi, è un caso sui generis anche perché è distaccato da San Vittore ed è molto più simile a una casa famiglia. Ai bambini però la realtà non è mai nascosta: né a coloro che stanno dentro con la mamma, né a quelli fuori. «Perché le bugie alimentano le carceri» commenta Grimaldi. Per questo le operatrici e le detenute hanno scritto insieme un libricino che si intitola Mamma, dove siamo?. Una fiaba che aiuta tutti a spiegare ai bambini cos’è l’Icam, e a raccontare che gli adulti possono commettere degli errori. Così come aiutare le donne detenute a intraprendere un percorso di coscienza e di apertura, senza vergogna, nei confronti della loro situazione detentiva e della società.

Un cartellone con le riflessioni delle detenute sulla donna, sopra la porta della Sala colloqui dell’Icam di Milano

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