Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo a questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Per un mese pubblichiamo ampi stralci della “Relazione sul Caso Impastato”, elaborata dal Comitato della Commissione Parlamentare Antimafia della XIII° Legislatura, sull’uccisione di Peppino Impastato


Il nome di Badalamenti comincia a circolare sin dall’epoca della uccisione del bandito Giuliano. C’è oramai una vasta letteratura sull’argomento. Qui basta solo ricordare che tra le varie versioni dei fatti ve ne è una secondo la quale «Giuliano sarebbe stato già consegnato cadavere a Pisciotta dalla mafia di Monreale, diretta dal boss Ignazio Miceli, che aveva provveduto a farlo uccidere dal ‘picciotto’ Luciano Liggio, per ordine di Gaetano Badalamenti».

Non è compito di queste pagine accertare la veridicità di questa versione dei fatti; essa è stata richiamata solo per sottolineare il ruolo di Badalamenti – anche se la versione dovesse risultare totalmente falsa è tuttavia significativa la circostanza che nella vicenda sia stata inclusa la presenza del mafioso di Cinisi – e per far notare come il suo ruolo sia, a quell’epoca, di grado superiore a quello di Liggio.

Durante il tentativo di golpe del principe Junio Valerio Borghese, Badalamenti discute con Leggio, Salvatore Greco, Giuseppe Calderone e Giuseppe Di Cristina la posizione più conveniente per Cosa nostra rispetto alla proposta del principe. Badalamenti si schiera contro il golpe fascista nonostante il principe Borghese abbia promesso, in caso di successo del golpe, un’ampia amnistia e dunque l’immediata liberazione di Vincenzo Rimi e del figlio Filippo, cognato di Badalamenti, in quel periodo detenuti. Buscetta ricorda le parole di don Tano: «A noi i fascisti non ci hanno mai sopportato e noi andiamo a fare un golpe proprio per loro?».

I suoi dinieghi pesano, come quello opposto a Michele Sindona quando rientra in Sicilia alla ricerca di consensi per un suo progetto separatista.

Altrettanto noti e robusti erano i suoi rapporti con i cugini Salvo. È stato Badalamenti a presentare i due cugini a Stefano Bontate, a presentarli come mafiosi perché i Salvo e lo stesso Badalamenti, per ovvie ragioni, hanno sempre cercato di tenere nascosta la loro affiliazione alla mafia nella famiglia di Salemi.

Tramite i Salvo Badalamenti entra in contatto con uomini politici potenti come Salvo Lima, discusso esponente politico siciliano molto legato all’onorevole Giulio Andreotti di cui costituisce l’architrave della sua corrente in Sicilia.

Mentre Riina e i corleonesi cercano di metterlo in difficoltà dentro Cosa nostra, Badalamenti continua a tessere i suoi rapporti a livello internazionale per estendere ancor più i suoi canali, già robusti peraltro, del traffico di stupefacenti.

Agli inizi del 1976 i capi del traffico turco inviano in Italia un loro «ufficiale di collegamento» Salah Al Din Wakkas con il compito di coordinare l’afflusso di eroina in Italia. Per fare ciò Wakkas tratta «con i pezzi più grossi della mafia di Palermo. Quasi tutti i membri della Cupola erano nel suo elenco, a partire dal mammasantissima appena prescelto per capeggiarla, Gaetano Badalamenti».

Nel frattempo Badalamenti partecipa assieme a Salvatore Greco, Giovanni Spatola, John Gambino e Giuseppe Bono a società costituite dai Cuntrera.

E tuttavia, Riina continua a minare la credibilità di Badalamenti e di Bontate che, di fronte ai corleonesi, assumono sempre di più la funzione dell’ala moderata della mafia.

È bene intendersi sull’uso dei termini perché moderato è sicuramente un attributo che stride se riferito a un mafioso. Ed in realtà è così anche se occorre tenere conto delle varie fasi attraversate dalla mafia – che è pur sempre un’organizzazione che si trasforma col trascorrere del tempo – e dei ruoli che i singoli personaggi volta per volta assumono.

Dopo la sentenza di Catanzaro Badalamenti diventa «il personaggio più potente di Cosa nostra» e la sua prima preoccupazione è quella di organizzare una serie di attentati in Sicilia «per mostrare a tutti che la mafia era tornata in scena più forte di prima». Le sue sono espressioni inequivocabili oltre che crude: «Dobbiamo riprendere possesso della Sicilia. Dobbiamo farci sentire. Tutti i carabinieri a mare li dobbiamo buttare». In altre occasioni, dopo l’acquisizione di enormi ricchezze e dopo aver realizzato il suo sistema di potere e di alleanze politiche e istituzionali, è Badalamenti, diventato oramai «governativo», a dire: «Noi non possiamo fare la guerra allo Stato».

Riina sfrutterà questa contraddittorietà, che ha sempre contraddistinto gli uomini di mafia, e la userà nella sua lotta contro Bontate e Badalamenti. «Che facciamo, stiamo a parlare degli sbirri? » risponde Riina a chi gli chiede conto del perché ha fatto ammazzare il colonnello dei carabinieri Giuseppe Russo. L’ufficiale è stato ucciso la sera del 20 agosto del 1977. La decisione, ancora una volta, è assunta senza informare né Bontate né Badalamenti.

Dopo una serie molto lunga di colpi per indebolire il prestigio di Badalamenti, per Riina finalmente arriva il grande giorno: Badalamenti è addirittura espulso da Cosa nostra, «posato» come si dice in gergo mafioso. Una delle conseguenze dell’espulsione è l’isolamento del mafioso cacciato. Si trova scritto nell’ordinanza–sentenza del maxi-processo: «L’uomo d’onore posato non può intrattenere rapporti con altri membri di Cosa nostra, i quali sono tenuti addirittura a non rivolgergli la parola». E’ una delle tante regole – buona per i picciotti ma non per i capi – che saranno regolarmente infrante.

Le reali ragioni che hanno spinto Riina e i corleonesi ad adottare una decisione così drastica nei confronti di Badalamenti sono rimaste un mistero per lunghi anni e ancora oggi non c’è una spiegazione sicura. Ci sarebbe anche da chiedersi come mai non sia stato ucciso dal momento che l’infrazione grave – qualunque sia stata – è stata commessa da uno che ha avuto un ruolo così preminente in Cosa nostra; e dunque avrebbe dovuto essere punito con la morte. Non è semplice rispondere a questa domanda, si possono solo avanzare delle ipotesi: un’ipotesi potrebbe essere il suo legame di comparaggio con Liggio che potrebbe aver funzionato come salvacondotto per avere salva la vita; un’altra ipotesi potrebbe essere legata agli affari economici rilevanti gestiti da Badalamenti e ai suoi molteplici collegamenti nel campo degli stupefacenti, affari che, con ogni probabilità, ha gestito in cointeressenze con altri capi mafia e che avrebbe potuto continuare a gestire anche da « posato », e, dunque, gli è stata salvata la vita per non compromettere gli interessi di altri mafiosi di peso; un’altra ipotesi, inoltre, si può rintracciare nel fatto che all’epoca l’uccisione di Badalamenti avrebbe fatto reagire ben più pesantemente Stefano Bontate che è ancora forte in Cosa nostra avendo a disposizione uomini a lui fidati e un sistema di relazioni politiche ancora molto forte. Questa ultima ipotesi non esclude per niente le altre con le quali non è per nulla in contraddizione, anzi.

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