Io te lo avevo detto che non dovevamo comprare il biglietto della sera». Alla fermata del tram 4 di corso Sebastopoli, un capannello di tifosi si infervora sul toto-match delle Atp Finals di Torino: avevano astutamente indovinato il giorno di esordio dell’eroe di casa, Jannik Sinner, ma sbagliato il calcolo dell’orario.

La considerazione che il primo italiano al Masters con chance di puntare al titolo potesse essere messo in scena dagli organizzatori in sessione serale aveva una sua robusta logica. Ma è andata diversamente e, così, il jolly lo hanno vinto gli spettatori del pomeriggio della domenica.

Caldi come pentole in ebollizione per l’esordio del ragazzo di San Candido, il cui nome da solo sparge entusiasmo e fibrillazione: la faccia di Sinner, per le strade di Torino e sugli spalti del Pala Alpitour, è dappertutto.

All’entrata in campo, pareva avesse fatto gol la nazionale. Se ci si ferma all’angolo della strada nel capoluogo sabaudo, se non di Juventus o di Toro, è probabile che qualcuno stia parlando proprio di lui. Il marchio di caffè torinese che sponsorizza Sinner ha assoldato pure un manipolo di suoi giovani fan, vestiti da carote, che gira il mondo (spesato da loro) per sostenerlo e si guadagna interviste per le testate internazionali.

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Il popolo dello sport, è evidente, ha una fame insaziata di un Alberto Tomba o di un Valentino Rossi del tennis, e tutti attendono la consacrazione di uno Slam – o anche delle finali Atp, può bastare – per il sigillo definitivo: «Adriano, fattene una ragione», recitava un cartello un po’ sfacciato, inquadrato anche dalle tivù durante il match vinto con una pallina in tasca contro Stefanos Tsitsipas.

Adriano, manco a dirlo, è Panatta, col quale Sinner condivide il primato italiano nel ranking (numero quattro al mondo) e una partecipazione al Masters; per il discorso Slam e la Davis si dovrà aspettare ma, quasi certamente, i giorni passati da quando Jannik è diventato professionista sono più di quelli che lo separano dalla presa di uno dei quattro major. Certo è che la traversata del deserto iniziata nel giugno 1976, quando un italiano trionfò al Roland Garros, è in predicato di finire.

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Le Atp Finals, che han fatto più volte il giro del mondo dal 1970 prima di piantare le tende qui, funzionano come i concerti dei Måneskin: sold out in un battito di ciglia. Sono costate parecchio, anche in investimenti pubblici, e l’intervento del governo – già fondamentale per aggiudicarsele – sarà decisivo anche per conservarle a Torino dopo il primo quinquennio, post edizione 2025.

Per questa terza edizione piemontese del festival dei maestri del tennis i quasi 170.000 biglietti sono pressoché evaporati. Quasi uno su due se lo è aggiudicato un appassionato straniero con ricadute interessanti sull’economia locale: sono stimati 230 milioni di impatto economico, di cui 50 di gettito fiscale. Ma se il torneo è di tutti i fan del mondo – le rappresentanze più nutrite arrivano da Svizzera, Gran Bretagna, Germania e Brasile – la febbre per Sinner e, di conseguenza, l’innamoramento collettivo per il tennis sono questione eminentemente italiana.

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La federazione ha fatto sapere che dal 2021, anno dello sbarco delle Finals a Torino dopo dodici anni di permanenza londinese, i tesserati del tennis in Piemonte sono esplosi: quasi triplicati gli iscritti, con numeri ulteriormente da raddoppiare se si considerano solo i giovani praticanti, gli under 18. Quell’anno, ancora segnato dalla pandemia, a Torino Berrettini arrivò e si fece male, come purtroppo capita troppo di sovente, e il giovane Jannik entrò come riserva, giocando due grandi match contro Hurkacz e Medvedev, nei quali mostrò le stimmate del campione.

In tutto il territorio nazionale, i tesserati superano abbondantemente il mezzo milione e la quota di aficionados con racchetta è destinata a gonfiarsi ulteriormente, anche per il successo clamoroso del padel e per l’interesse strisciante che aleggia intorno all’ultimo ammesso in famiglia, il pickleball, del quale Torino ospita proprio in questi giorni il campionato nazionale accanto al palazzetto e che entrerà nella didattica per i maestri dal 2024.

L’eredità

Eppure in piena era Covid, quando si iniziò a parlare di un possibile trasloco del torneo Atp di fine stagione in Italia, c’era un interrogativo grosso così, che aleggiava nel mondo della racchetta: a chi sarebbe toccata l’eredità dei tre grandi, Federer, Djokovic e Nadal?

La domanda non era peregrina, anche perché era facilmente presagibile che nessuna successione potesse reggere il confronto con un trio di fenomeni capace di stravolgere gli standard del gioco e di usare il moltiplicatore per la contabilità dei tornei raccolti in carriera.

E che l’interesse generale potesse risentirne. Oggi, ci si ritrova con il grande vecchio Novak Djokovic tirato a lustro e deciso a tritare ogni record, ancora competitivo ai massimi livelli e, a tentare di scollarlo dal trono, una pattuglia di ragazzi dalle potenzialità – in parte già espresse – di valore planetario.

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Al di là di Ben Shelton, quest’anno assente al Masters ma probabilmente maturo per un ingresso stabile nella top ten, il primo è il braccio-dinamite di Carlos Alcaraz, re di due Slam e già numero uno del ranking; il terzo, quello ancora in incubatrice, è il danese Holger Rune, lottatore dal carattere piuttosto impertinente ma dal talento almeno pari alla sfrontata ambizione.

Quello di mezzo è proprio Jannik Sinner dall’alta val Pusteria, cui è riuscito di innescare definitivamente la passione travolgente per il tennis che l’Italia non viveva dai tempi di Panatta. E che neppure le imprese di Matteo Berrettini, due volte qualificato al Masters e finalista a Wimbledon, erano state capaci di far detonare.

Il golden boy del tennis italiano è un veicolo formidabile per il tennis: nel suo Alto Adige, per mandare i bambini alle scuole tennis estive ci si prende a gomitate, e decine di circoli, rimasti sonnacchiosi per lungo tempo, stanno vivendo un robusto ripopolamento, e non soltanto per la vivacità agonistica dei seguaci del cugino minore, il padel.

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Appena sbarcati a Torino, Sinner e Alcaraz sono stati prelevati dallo sponsor che cura il loro abbigliamento tecnico e messi su un campo blu elettrico, steso nella centralissima via Roma, accanto ai portici. C’era la ressa riservata alle superstar del calcio, in un trionfo di palline giganti che frotte di ragazzini sognavano di farsi autografare.

La misura del salto di qualità del tennis in Italia l’ha offerta anche il Torino-boy Lorenzo Sonego, ex numero 21 Atp, attualmente 47 e atleta che, negli ultimi quarant’anni, l’Italia avrebbe fatto carte false per poter schierare in Davis e mandare per il mondo a caccia di successi. Al Pala Alpitour si è fatto vedere per l’esordio di Jannik Sinner, con la promessa di tornare nei prossimi anni non solo da spettatore privilegiato.

Un destino che potrebbe toccare anche a Lorenzo Musetti (27 Atp), in attesa di lumi sul futuro di Matteo Berrettini e della rincorsa di altri giovani d’assalto come Matteo Arnaldi (da 134 a 43 in una stagione). Una licenza di sognare che l’Italia del tennis, prima di questa nuova era dell’oro, non poteva osare. Ora i campioni sono nati anche entro i confini di casa nostra, dopo averci accuratamente evitato per decenni: ed è tutta un’altra storia.

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