Un santo irresistibile, tutti pazzi per san Francesco

Un santo tirato da tutte le parti, ma soprattutto uomo dal fascino irresistibile ed enigmatico: è Francesco d’Assisi, che muore il 3 ottobre 1226 sulla nuda terra della Porziuncola, luogo cruciale nella vita di chi presto venne identificato come “un secondo Cristo” (alter Christus) tanto aveva impressionato i suoi contemporanei. Canonizzato nella stessa Assisi da papa Gregorio IX meno di due anni dopo la morte, il figlio del ricco mercante Pietro di Bernardone ha avuto una fortuna immensa e – sull’onda dell’incombente ottavo centenario – è ora alla ribalta non solo in libreria ma anche per le vicende della sua festa. Dopo un’eclissi di mezzo secolo, infatti, il 4 ottobre, giorno in cui il santo viene ricordato nel calendario cristiano, torna festivo in Italia. Con effetti però non dall’anno prossimo – quando la festa cadrà di domenica – bensì dal 2027, esattamente cinquant’anni dopo la sua soppressione, disposta nel 1977 dal terzo governo Andreotti per cercare di arginare il disastrato bilancio del paese. Era stato un altro governo democristiano, il monocolore di Adone Zoli, a introdurre nel 1958 la festività del 4 ottobre, dichiarata «giornata della pace, della fraternità e del dialogo tra appartenenti a culture e religioni diverse». Nella legge istitutiva il riferimento esplicito era poi a Francesco d’Assisi e a Caterina da Siena, proclamati patroni d’Italia da Pio XII un ventennio prima, nel 1939. Proprio nel 1958, in pieno miracolo economico italiano, a guidare il pellegrinaggio lombardo ad Assisi è l’arcivescovo di Milano. Quel 4 ottobre Montini sa rivolgersi al «santo della povertà» con accenti nuovi: «Francesco, aiutaci a purificare i beni economici dal loro triste potere di perdere Dio, di perdere le nostre anime, di perdere la carità dei nostri concittadini. Vedi, Francesco, noi non possiamo straniarci dalla vita economica» – continua – ma è possibile «maneggiare i beni di questo mondo, senza restarne prigionieri e vittime?». «Ha tanti dubbi quanti ne ho io»: quel legame tra Borges e Bergoglio Non tutti convinti Figura amatissima trasversalmente, Francesco non ha però convinto sempre tutti. Se in questi giorni è stato il britannico Guardian a notare con sorpresa e scarsa simpatia il ritorno della festa civile in Italia, nel 1542 il luterano Erasmus Alber aveva polemizzato con asprezza contro il santo, bollato come un «idolo». Poi, nella temperie dell’illuminismo razionalista, Goethe affermava di non aver voluto visitare la basilica di Assisi, che racchiude le sue spoglie celebrate dai colori di Giotto, andati in frantumi e restaurati mirabilmente dopo il terremoto del 1997. La reazione romantica del XIX secolo rivaluta Francesco anche come trovatore. Viene folgorato dalla sua figura un pastore calvinista francese, Paul Sabatier, che nel 1894 pubblica una biografia dal successo clamoroso, che finisce all’Indice ma che fonda gli studi moderni sul santo. Arriva poi il cinema – soprattutto con Rossellini, Zeffirelli e, ripetutamente, Liliana Cavani – e molti fumetti. Tra i quali figura un Franz «improbabile e cinico» disegnato da Altan con il suo tratto provocatorio, come ricordava su Avvenire lo specialista Paolo Guiducci. Clamore e giudizi tra loro contrastanti suscita nel 2013 anche il nome preso da Bergoglio, non a caso ispirato al santo povero per antonomasia tanto che dal suo cantico ha intitolato l’enciclica meglio riuscita: Laudato si’. Nella serie dei pontefici Franciscus – che nel latino medievale significa semplicemente “francese” e venne imposto al figlio Giovanni dal padre, arricchitosi commerciando con la Francia – non solo è nuovo ma per la prima volta non appartiene ai nomi derivanti dalla tradizione ebraica e cristiana o classica. Dal vescovo Policarpo a Pelé, il culto trasversale delle “sacre ossa” “Questione francescana” Un nome emblematico, dunque, atteso come quello del papa Angelicus, sogno ricorrente di origine medievale. Ma anche criticato: a suo tempo liquidato come troppo “commerciale”, dà lo spunto a una irresistibile vignetta di Natangelo, che sul Fatto Quotidiano ha immaginato Giorgia Meloni fare i complimenti a Leone XIV per la scelta del nome, ben più tradizionale. «Sei papa: come te voi chiama’? “Francesco”. Come mi’ cognato, ennàmo» gli dice in romanesco. Alla radice di tutto è la “questione francescana”, aperta dal protestante Sabatier con lo studio storico della selva intricata e spesso incantevole costituita dalla letteratura dei primi due secoli. Sono biografie, cronache, testimonianze raccolte nell’unico volume delle Fonti francescane (o nei cinque della Fondazione Valla). Da qui deriva, secondo Carlo Bo (Se tornasse san Francesco, Castelvecchi), una «grande linea che riscatta una letteratura come la nostra per tanta parte incline alla dilettazione retorica, la linea che parte dal Cantico, passa per Dante e approda ai Promessi sposi». Prologo editoriale del centenario che sta per aprirsi è il «derby francescano» iniziato in libreria a metà settembre da Aldo Cazzullo e da Alessandro Barbero, i narratori «più amati dagli italiani», che hanno scritto due best seller annunciati. Nel darne conto su queste pagine Beppe Cottafavi ha registrato lo slancio del primo, reduce dal successo editoriale della sua Bibbia, davvero impressionante. Muoversi con equilibrio e pazienza. Ecco lo sminatore Leone XIV Un «tipo controcorrente» Sullo sfondo di questa partita fa capolino Il cuore nascosto del Cantico (Mondadori) di Domenico Sorrentino. Nel libro, l’attuale vescovo di Assisi analizza verso per verso il componimento iniziato da Francesco a San Damiano e terminato nell’episcopio della città. «Siamo tutti come dei ciechi e il Signore ci illumina gli occhi», di giorno con il sole, di notte con il fuoco, creature per le quali Dio va lodato, diceva ai suoi compagni Francesco, ripetendo loro: «Che cosa sono i servi di Dio, se non i suoi giullari che devono commuovere il cuore degli uomini?». Come per tutta la vita è stato lui «giullare, perché così dice di sé stesso, e in tal modo lo vedono gli altri» scrive Giulio Busi nel suo Il cantico dell’umiltà (Mondadori). Che è una narrazione sapiente nella quale la vita di Francesco dopo la conversione balza dalle pagine grazie a uno stile coinvolgente, che con rigore e leggerezza fa parlare i testi medievali. L’autore confessa di dovere il libro al «francescanesimo energico» di un cappellano, frate Ludovico, conosciuto nella parrocchia frequentata da adolescente, e all’idea che del santo aveva sua madre, quando quasi ogni sera gli chiedeva: «Sei stato buono, oggi, sei stato umile?». Anche se riconosce che del patrono d’Italia non è facile «dire in che cosa consista tale protezione, accordataci dall’alto da un simile tipo controcorrente». Busi sa di doversi confrontare, come talvolta fa esplicitamente, con i testi evangelici, che illuminano la vita misteriosa dell’alter Christus. Il suo racconto si apre sul protagonista che, mentre cala la notte, entra cantando in un bosco dove comincia a scendere la neve e viene picchiato dai briganti, irritati dalle sue parole: «Sono l’araldo del gran re; che v’importa?». E quando se ne vanno, il suo canto ricomincia. Sino alla soglia della morte, dove quel «re lo attende», dall’altro lato del bosco, «eterno, maestoso, paziente». Il destino dei classici è un thriller che dura secoli