Facciamo finta che venga ritrovata, che misteriosamente salti fuori come misteriosamente era scomparsa. E che qualcuno, trentuno anni dopo, la possa sfogliare e scoprire finalmente quali segreti Paolo Borsellino aveva affidato alla sua famosissima agenda rossa. Facciamo finta che in una pagina, con la scrittura del procuratore, ci sia annotato: «Questo rapporto dei carabinieri su mafia e appalti è vacante, vuoto, inutile, è solo fumo e niente arrosto».

O, al contrario, che Borsellino, pochi giorni prima di saltare in aria, abbia entusiasticamente commentato: «L’informativa del Ros è preziosissima, è l’inchiesta chiave per farci capire tutto sul sistema mafioso». Facciamo finta però. È meglio per tutti.

Chissà quanti sono quelli che, oggi, pregano perché quell’agenda non si trovi mai. Se, nella malaugurata ipotesi, dovesse riemergere dalle sabbie mobili più di uno degli odierni “eroi” dell’antimafia giudiziaria e/o investigativa potrebbero cercare rifugio molto lontano dall’Italia per la vergogna o per la paura. Calma e sangue freddo: l’agenda rossa è una fantasticheria, è un miraggio, è la “scatola nera” mai recuperata di ogni mistero.

Questa premessa è quasi d’obbligo dopo avere letto la notizia che la procura di Caltanisetta sta cercando, nelle case degli eredi del superpoliziotto Arnaldo La Barbera, l’agenda di Borsellino fatta sparire subito dopo la sua uccisione.

Un personaggio controverso

Non so se mai recupereranno il “corpo del reato” in qualche abitazione dei figli o dei nipoti di La Barbera, so però che quello “sbirro” ben poco c’entrava con l’agenda rossa sottratta e molto c’entrava invece con il clamoroso depistaggio attuato attraverso il “pupo“ della Guadagna, Vincenzo Scarantino, il falso pentito costruito a tavolino per far condannare innocenti e coprire i colpevoli di una strage avvenuta appena 56 giorni dopo Capaci.

Una strage che, ieri come oggi, in troppi vorrebbero “staccare”, isolare dalla strategia della tensione che ha insanguinato il paese agli inizi degli anni Novanta. In mezzo al gorgo c’è pure lui, La Barbera.

Personaggio controverso e sfuggente, faccia butterata, una voce roca e il più delle volte incomprensibile, aria da duro, sbarcato da Venezia in Sicilia a metà agosto del 1988 per fare “pulizia” dentro la questura di Palermo.

Era il mandato che gli aveva dato il capo della polizia Vincenzo Parisi: «Vai, a Palermo nessuno indaga più sulla mafia». L’aveva denunciato Paolo Borsellino nel luglio precedente in un’intervista a Repubblica e all’Unità: «Il pool antimafia è finito, Giovanni Falcone è solo, l’ultima indagine sui boss risale al 1985 prima degli agguati contro i commissari Ninni Cassarà e Beppe Montana».

Un atto d’accusa. Così il presidente della Repubblica Francesco Cossiga costrinse il Consiglio superiore della magistratura ad aprire un “caso Palermo” convocando tutti i giudici siciliani a Roma. Così il ministero dell’Interno si dovette adeguare cacciando funzionari molto felpati e scegliendo Arnaldo la Barbera come nuovo capo della squadra mobile.

L’ho conosciuto subito e non l’ho capito mai. Anche se credo che ci sia stato un La Barbera prima e un La Barbera dopo, due facce, la linea di confine l’attentato fallito all'Addaura contro Falcone e poi naturalmente l’autobomba contro Borsellino. È capitato a tanti in Sicilia – e capita ancora – di avere un prima e un dopo.

Il prima del poliziotto comandato in Sicilia per rivoluzionare una mobile normalizzata da grigi e distratti questurini è un anno vissuto pericolosamente dentro una struttura investigativa che faceva acqua da tutte le parti, talpe e corvi, La Barbera volle circondarsi solo di giovanissimi funzionari appena usciti dalla scuola di polizia, a loro affidò tutti gli incarichi più delicati e scivolosi.

L’attentato dell’Addaura

Non “in linea“ perfetta con quelli che erano i collaboratori più stretti del giudice Falcone – i poliziotti della Criminalpol Gianni De Gennaro, Antonio Manganelli e Alessandro Pansa e non i carabinieri dei reparti speciali come qualcuno di questi tempi vorrebbe far intendere stravolgendo i fatti – La Barbera si è conquistato un suo spazio importante nel vorticoso e pericoloso contesto investigativo siciliano fino ai candelotti di dinamite piazzati sugli scogli dell’Addaura fra il 20 e il 21 giugno del 1989. Lì qualcosa è cambiato.

E si è visto malamente neanche due mesi dopo, quando uccisero il poliziotto Nino Agostino (che probabilmente l’attentato all’Addaura l’aveva sventato) e La Barbera cominciò a cercare «motivi passionali» nella ragione della sua morte. Prove di depistaggio.

A parte sgradevoli episodi raccontati dai familiari di Paolo Borsellino sulla riconsegna di una borsa dove presumibilmente era custodita una volta l’agenda rossa, non abbiamo mai avuto elementi sufficienti per affermare che Arnaldo La Barbera sia entrato in possesso della “scatola nera” della strage e che l’abbia poi accuratamente nascosta. Adesso c’è una testimonianza che rilancia questa possibilità ma è tutto da verificare, decifrare. 

Abbiamo invece le prove di una clamorosa deviazione di una sua indagine sui sicari del procuratore Paolo Borsellino con l’arresto di Scarantino, con il marchio di attendibilità che lui stesso ha offerto a quel balordo di borgata, con l’imbeccata di fantomatici 007 che hanno fatto partire un’inchiesta tutta taroccata. Ma il colpevole non può essere solo e soltanto lui.

Che dire allora del procuratore capo di Caltanissetta Giovanni Tinebra, dei giudici di corte di assise e di corte di assise di appello e di Cassazione che si sono felicemente bevuti la bufala del “pupo” della Guadagna?

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