«Fra una settimana arriva l’elettrocardiografo e il prossimo acquisto sarà un piccolo ecografo». mi racconta Giorgia con gli occhi che sorridono, mentre pregusta già l’utilizzo di quelle nuove apparecchiature.

Sono in Barona, un vivace quartiere periferico di Milano, e sono venuto a visitare un ambulatorio di medicina generale per capire più da vicino quali siano i problemi, ma soprattutto le potenzialità, di questo tassello fondamentale del Servizio sanitario nazionale.

Giorgia è l’ultima arrivata in un’associazione di cinque medici di famiglia che lavorano divisi tra due ambulatori della stessa zona. Nell’ambulatorio che ho visitato io, lavorano anche Chiara (che, come Giorgia, è arrivata alla medicina di famiglia dopo una precedente esperienza ospedaliera) e Antonella, la prima ad aprire l’ambulatorio e l’ispiratrice del gruppo.

Ci sono poi due assistenti di studio, Silvia e Alfredo, e l’infermiere Paolo. In tutto seguono circa 4500 assisti, destinati a salire a 5000 quando Giorgia avrà completato i tre anni obbligatori di formazione specifica in medicina generale. La domanda che mi pongo e che pongo a loro è se un’organizzazione del lavoro diversa da quella, ancora prevalente, del medico che lavora da solo nel proprio studio sia in grado di fare la differenza.

Il valore della medicina di associazione

Certo che sì, mi dicono. Cominciando dall’apertura dell’ambulatorio che è di undici ore al giorno nei feriali e di tre ore il sabato mattina, quando i cinque medici dell’ associazione ruotano a turno per garantire la risposta alle situazioni più urgenti. Da ex medico d’urgenza calco un po’ la mano: «Però se poi nei feriali fate solo le visite su appuntamento è inevitabile che i pronto soccorso siano sempre pieni!».

In realtà ognuna delle tre si tiene libera ogni giorno uno spazio di una o due ore per visitare chi non può aspettare, previo telefonata e verifica che l’urgenza sia reale. Così, dei 25 pazienti che ogni medica vede in media ogni giorno, almeno cinque o sei accedono alla visita il giorno stesso della chiamata.

Veniamo dunque a parlare delle fatidiche 15 ore alla settimana, quelle previste che il contratto indica come minimo orario obbligatorio da dedicare alle visite e che sono spesso oggetto di critica e di facili contestazioni.

Dalle mie interlocutrici si leva un coro di protesta perché, mi ricordano, alle cinque-sei ore di visite ambulatoriali vanno aggiunte ogni giorno due o tre ore di lavoro amministrativo (certificazioni di ogni genere, richieste per sussidi e protesica, flussi informativi verso Ats, regione, Inps...), una o due visite domiciliari, momenti di formazione e di incontro per fare il punto sulle attività e sull’organizzazione dell’ ambulatorio. Nessuna delle tre lavora meno di otto-dieci ore al giorno, niente da invidiare dunque ai medici ospedalieri.

È giunto il momento di parlare del ruolo del personale di supporto. L’infermiere è presente quattro ore al giorno e, oltre a occuparsi delle vaccinazioni e delle medicazioni, ha il compito fondamentale di recarsi con regolarità a casa dei pazienti più fragili che fanno fatica a venire in ambulatorio e hanno malattie che possono scompensarsi in breve tempo.

Quattro chiacchiere e pochi controlli. Ci sono nuovi disturbi? Non è che si sono gonfiate le gambe? Continua a prendere le medicine con regolarità? Dai, già che ci siamo proviamo la pressione e vediamo cosa dice il saturimetro. La famosa medicina di iniziativa è in fondo tutta qui. Attenzione, disponibilità, non aspettare che le persone stiano male prima di vederle.

Le assistenti di studio sono il cuore dell’ambulatorio, si dividono la giornata e passano gran parte del loro tempo al telefono. Raccolgono le richieste, danno gli appuntamenti, identificano i casi da vedere con urgenza, preparano le ricette informatizzate per la firma del medico, distribuiscono informazioni e incoraggiamenti.

Costi e benefici

Circa un terzo dei pazienti dell’ambulatorio ha più di sessantacinque anni e sono inevitabilmente questi i pazienti che si fanno vivi con maggiore frequenza. Si mormora che Silvia e Alfredo li conoscano tutti per nome. Forse non proprio tutti, ma si sforzano perché nessuno abbia la sensazione di sentirsi un estraneo.

Quanto costa tutto questo? La retribuzione di Paolo, l’infermiere, è quasi totalmente coperta dal contributo della regione (circa 4 euro per assistito), lo stipendio di Silvia e Alfredo deve invece essere coperto almeno per la metà dalle mediche dell’ambulatorio. Anche le attrezzature (compresi l’elettrocardiografo e l’ecografo con cui abbiamo iniziato) sono a carico loro. Poi ci sono l’affitto, le bollette, la pulizia dei locali, l’assicurazione, i computer, i contributi pensionistici, le tasse.

A conti fatti, ogni medico ha un guadagno netto che per un numero massimale di pazienti (ormai quasi la regola) supera di poco i tremila euro mensili. Più o meno lo stesso guadagno di un medico ospedaliero con dieci anni di anzianità.

Alla fine delle chiacchiere con le tre colleghe mi aspetta una sorpresa. Nel parco dietro all’ambulatorio una cinquantina degli anziani assistiti da Antonella, Chiara e Giorgia stanno facendo fitwalking, camminata sportiva, guidati da Gigi, un istruttore certificato che mi dice: «Il segreto è trattarli come degli atleti. Stiamo attenti ai loro limiti, ma per il resto usiamo le stesse tecniche di allenamento e loro non mancano una seduta!».

L’iscrizione al corso, che dura tutto l’anno per due incontri settimanali, richiede un piccolo contributo da parte dei partecipanti ed è per il resto reso possibile dal supporto di Auser, un’associazione del volontariato sociale dedicata a far crescere la partecipazione attiva degli anziani nella società. Sono tutti tesserati e assicurati. È un esempio pratico di quella che chiamiamo prevenzione primaria, che non è fatta solo di smettere di fumare o di controllare il colesterolo, ma anche di esercizio fisico e di socialità, elemento essenziale quest’ultimo per il benessere nell’età anziana.

Un esempio da imitare

Con l’immagine negli occhi di una medicina generale bella e possibile, mi domando cosa impedisca di prendere questo ambulatorio (o uno dei molti altri gruppi di medici che in tutta Italia fanno cose simili) come modello da perseguire diffusamente nei prossimi dieci anni. Poco direi, forse nulla, se non la volontà di farlo.

Innanzitutto, con l’eccezione delle aree disagiate, la pratica individuale dovrebbe essere abolita e gli ambulatori di medicina generale dovrebbero prevedere la presenza minima di almeno tre medici, un infermiere e un assistente di studio. Questo consentirebbe di tenere aperto lo studio tutta la giornata, di lasciare spazio per le urgenze, di attivare la medicina di iniziativa. Soprattutto consentirebbe il confronto e la crescita tecnica e professionale di chi ci lavora.

Poi, come Antonella mi ha detto con assoluta convinzione, la medicina generale deve diventare al più presto una specializzazione universitaria come è già per tutte le altre discipline mediche. È necessario prevedere un vero e prolungato tirocinio ospedaliero, una formazione all’impiego diretto di alcune tecnologie diagnostiche di base e l’interazione costante con le altre discipline.

Infine, bisogna non perdere l’occasione offerta delle Case di Comunità che oggi, a parte il nome, differiscono di poco dai poliambulatori e dai centri di prenotazione di cui hanno preso il posto, rinunciando a essere quel motore della crescita culturale e operativa della medicina territoriale di cui si avverte tanto il bisogno.

La capacità imprenditoriale delle associazioni mediche e, perché no, un po’ di fantasia da iniettare nel lavoro sono un valore aggiunto che non può essere imposto. Si potrebbero però aumentare gli aiuti e gli incentivi legati ai servizi attivati e ai risultati ottenuti.

Le tre dottoresse della Barona non fanno nulla che ogni medico di medicina generale in Italia non potrebbe fare. Se però i loro cinquanta atleti over settanta hanno insistito perché le fotografassi insieme a loro, qualcosa di speciale ci deve essere.

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