Covax è un esperimento concepito da governi e privati con lo scopo dichiarato di favorire l’accesso globale ai vaccini. Un anno dopo è evidente che l’esperimento è fallito. Come attesta il segretario dell’Onu, «finora Covax ha consegnato 72 milioni di dosi, ma l’obiettivo era di 172». Bello e impossibile: così lo definisce la rivista scientifica Lancet, che a Covax dedica l’ultima copertina. A beautiful idea: how Covax has fallen short, «Una bella idea: ecco come Covax è presto capitolato», è uno sprazzo di verità che Bruxelles continua a fare finta di non vedere. Nella sua comunicazione depositata ieri alla World Trade Organization allo scopo di arenare l’alternativa – cioè la deroga ai brevetti – l’Ue insiste: «Bisogna riconoscere il ruolo essenziale di iniziative come Covax volte ad assicurare l’accesso equo ai vaccini». Nei paesi ricchi una persona su tre riceve entrambe le dosi, in quelli a basso reddito una su mille, e Covax è l’ultima foglia di fico usata dall’Ue per coprire le diseguaglianze. Ma Lancet contribuisce a far cadere anche quella.

Diagnosi di un fallimento

Cominciamo dal finale: Ann Danaiya Usher sulla rivista ricostruisce in che modo «i paesi ricchi» hanno snaturato «un’iniziativa nata per solidarietà» e si sono comportati «peggio che nei nostri peggiori incubi». All’inizio, un anno fa, Covax si presenta come un meccanismo per procacciare vaccini su scala globale, contrattando in comune le dosi e distribuendole in modo agevolato ai paesi con le economie più fragili. Succede tutt’altro. I più forti corrono ad accaparrarsi dosi per loro. Ad agosto, gli Stati Uniti hanno già concluso sette accordi bilaterali con sei aziende per più di 800 milioni di dosi, mentre l’Ue con cinque accordi si è accaparrata dosi pari a più del doppio della sua popolazione. «I tempestivi investimenti dei paesi ricchi hanno assicurato ai più abbienti di finire davanti a tutti, mentre Covax, che non aveva i mezzi per competere, è finita in coda», dice Danaiya Usher. Ma gli squilibri non si riducono al fatto che i paesi ricchi si accaparrano subito dosi con accordi bilaterali; proseguono anche nella gestione di quelle comuni.

Kate Elder è senior policy advisor per Médecins sans Frontières in tema di vaccini e ricorda bene quel che è successo. «Pur di convincere i paesi ricchi a entrare nel meccanismo, Covax ha finito per perdere tempo prezioso e soprattutto per fare loro molte concessioni», dice. E del resto già a giugno di un anno fa Msf lo aveva previsto: «Anche se Covax dovesse raccogliere molti soldi, non potrebbe competere col fatto che i paesi più ricchi hanno già stretto accordi con le aziende e pagheranno pur di accaparrarsi più dosi». Gli squilibri si sono presto trasferiti anche dentro il meccanismo, nato, in teoria, per essere solidale. Covax ha due pilastri: uno riguarda i paesi ricchi, in grado di pagarsi i vaccini da soli, e l’altro 92 paesi a basso reddito, le cui dosi necessitano di finanziamenti, aiuti, donazioni altrui. Il paradosso è che mentre il pilastro più fragile avrebbe dovuto ricevere vaccini per il 20 per cento della popolazione, la soglia per gli altri saliva al 50 per cento. Sono le «concessioni» di cui parla Elder, o i double standard di cui scrive Lancet. Questo divario si accentua ora che diventa evidente la incapacità per Covax di assolvere alle promesse fatte: a questo meccanismo dobbiamo solo il 4 per cento dei vaccini inoculati finora. Entro il 2022, doveva diffondere due miliardi di dosi; è incerto che riesca ad arrivare anche solo a metà. Ma la perversione, che Lancet pone all’attenzione, è che «nonostante Covax sia disperatamente a corto di vaccini, per com’è congegnato il meccanismo è obbligato comunque a riservare una dose su cinque ai pochi paesi ricchi».

Una governance ambigua

Lancet è comunque ottimista, perché etichetta il meccanismo come «una bella idea». Ma la natura di Covax è ibrida: pubblica e privata. Lo stesso meccanismo che dovrebbe negoziare con Big Pharma porta al suo interno la presenza delle aziende. I fondatori sono l’Organizzazione mondiale della sanità, Gavi (la “Vaccine alliance”) e Cepi (la “Coalition for epidemic preparedness innovation”). Gavi, Cepi, e la loro creatura, cioè Covax stessa, sono laboratori di “multistakeholderismo”: in alternativa al multilateralismo dei governi, propongono una governance in cui il pubblico è affiancato da corporation, fondazioni, investitori, portatori di interessi privati. Gavi è nata su input della Bill and Melinda Gates Foundation oltre vent’anni fa, e nel suo board ci sono anche un rappresentante dell’industria produttrice di vaccini, cinque paesi donatori, la Banca mondiale. Cepi nasce a Davos quattro anni fa, è registrata come associazione norvegese, nel suo board ci sono rappresentanti del mondo dell’industria e investitori. I Gates e il World Economic Forum sono forti sia in Cepi che in Gavi, e Covax ne è il prodotto.

TikTok e i bond dei vaccini

Il 75 per cento delle sovvenzioni viene dai Gates, mentre tra le donazioni di aziende spicca TikTok (il 55 per cento). Certo, anche i governi donano: tra i più importanti ci sono Ue e Arabia Saudita. Ma per finanziare le dosi esistono anche i “vaccine bond” e i prestiti, che andranno restituiti con gli interessi. Perciò come nota Harris Gleckman nel suo studio per Friends of the Earth e il Transnational Institute, «Covax somiglia più a una banca d’affari che a un’istituzione per la salute globale». Per di più il suo processo decisionale è tutt’altro che trasparente. È un circolo vizioso: a negoziare dosi globali con Big Pharma c’è un organismo a più teste, una delle quali sono le aziende. Proprio Covax era l’ultimo alibi per evitare la deroga ai brevetti che Big Pharma non vuole.

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