L’automobile di don Luigi, il parroco della chiesa che si trova nella vicina piazza Caduti della Montagnola, sta andando via. Ha appena consegnato casse di frutta e ortaggi che sono un dono per il Natale da parte degli abitanti del quartiere. «Lui viene sempre, ci aiuta quando abbiamo bisogno. Qui ci si dà una mano tutti, italiani e stranieri allo stesso modo», raccontano alcune delle persone che abitano all’interno, mentre varchiamo la soglia del cancello d’ingresso di uno dei palazzi occupati a scopo abitativo più grandi d’Italia che si trova a Roma nel quartiere Ardeatino.

Viale del Caravaggio, numero civico 107. I palazzi in realtà sono due. Perfettamente simmetrici l’uno all’altro. A separarli è soltanto un piccolo cortile. Hanno entrambe le strutture la forma di un parallelepipedo e sei piani di altezza, con i vetri disposti ai lati e lungo le facciate che ne abbelliscono in parte il profilo. Ironia della sorte, in queste costruzioni poi abbandonate fino a qualche anno fa erano ospitati gli uffici dell’assessorato per il diritto alla casa della Regione Lazio, con l’ente pubblico che ha pagato per anni un lauto affitto ai proprietari, l’antica gens di costruttori romani Armellini, che ha edificato nella Capitale degli anni Sessanta e Settanta qualcosa come tremila e seicento appartamenti, per complessivi 90mila metri cubi di cemento.

Lady Armellini

L’ultima erede della famiglia di palazzinari del capostipite Renato, morto nel 1993 mentre nuotava nelle acque dell’Argentario, si chiama Angiola Armellini e rivendica con forza, già da un paio di anni, il possesso degli ex uffici di via del Caravaggio, dove nel frattempo ci vivono all’interno 131 nuclei familiari, 400 persone, uomini e donne, italiani poveri e stranieri di ogni nazionalità, tra cui 70 minorenni. I palazzi a specchi con la forma di un parallelepipedo sono stati occupati dalle famiglie, perché abbandonati e vuoti, il 6 aprile del 2013. 

Armellini oggi preme con forza sulla politica, nazionale e capitolina (alle comunali del 2016, ha scritto L’Espresso, ha finanziato la candidata Giorgia Meloni), perché le persone vengano sgomberate. E lo fa in virtù di una sentenza del tribunale civile di Roma che il 9 novembre del 2017 ha riconosciuto il diritto della società proprietaria degli immobili (a lei riconducibili) di rientrarne in possesso. I giudici hanno anche quantificato il risarcimento in suo favore, per i mancati introiti ottenuti. A conti fatti, sono quasi tre milioni di euro l’anno che lo Stato deve all’immobiliarista: 260mila euro ogni mese, a partire dal settembre del 2014, e fino a quando lo stabile non sarà liberato.

La circolare Salvini

Una sentenza che ha fornito la base giuridica alle forze di polizia «per vincolarle nella tutela della legalità a intervenire nell’interesse del singolo», come rivelato a suo tempo dal Corriere della Sera.  E tuttavia una sentenza che aveva anche dotato di un pretesto l’allora prefetto di Roma, Gerarda Pantalone, per firmare una circolare il 19 luglio del 2019, da subito ribattezzata «circolare Salvini»,  attraverso cui veniva predisposta una lista di 23 immobili da sgomberare «tenuto conto della conseguente insufficienza del sistema del welfare pubblico, condividendo l’esigenza di distribuire in un arco pluriennale gli interventi di sgombero, prevedendo un intervallo tra ciascuno di essi non inferiore a tre mesi», si leggeva nel provvedimento della prefettura capitolina: «Considerato che è attualmente in corso di preparazione l’ultimo intervento correlato alla pregressa pianificazione concordata con la Procura della Repubblica di Roma, riferita all’immobile sito in via del Caravaggio 105/107, fissato entro il 31 marzo del 2020».

Il piano di sgomberi della prefettura si era poi fermato il 19 luglio dello scorso anno, complice la pandemia e il cambio del Governo, quando dopo diverse ore di guerriglia urbana erano state sgomberate le numerose famiglie che abitavano il palazzo occupato di via Cardinal Capranica, nel quartiere di Primavalle. Aveva preso di nuovo vigore lo scorso 25 novembre, quando era stato «liberato» dalle forze dell’ordine il Cinema Palazzo nel quartiere di San Lorenzo, presidio culturale nato nel 2011 per scongiurare l’apertura di un casinò.

Le voci degli occupanti

«Il giorno in cui hanno sgomberato il cinema Palazzo, in viale del Caravaggio hanno fatto capolino i tecnici di Acea. Ci hanno detto che dovevano controllare i contatori ed effettuare un censimento del numero di persone che vivono nei palazzi, ma non li abbiamo fatti entrare, perché troppo forte era il sospetto che ci volessero staccare l’acqua e la luce, come del resto sta già accadendo nei quartieri dove vivono i poveri della città e come hanno provato a fare lo stesso giorno in tutte le occupazioni abitative di Roma», racconta Roberto, che ha 52 anni, e vive qui dal primo giorno dell’occupazione dello stabile, da ormai sette anni: «Ho sempre pagato l’affitto, quando vivevo con mia moglie e mio figlio. Poi la separazione e successivamente il licenziamento in un negozio dove lavoravo come magazziniere mi hanno costretto quasi sul lastrico. Ora sopravvivo facendo lavori saltuari nel campo dell’edilizia. E pagare un affitto, con i prezzi di Roma, quello no, non posso proprio permetterlo».

Roberto dice: «Ci deve volere davvero tanto coraggio a provare a staccare la luce e l’acqua dove vivono bambini anche di un anno, in questo momento economico drammatico. Per questo siamo andati a protestare lo scorso 9 dicembre sotto la sede di Acea. Perché se cacciano me da qui dentro, una panchina dove andare a dormire la trovo, ma chi ha bambini…dove va?».

Anche Mina, 34 anni, donna di origine marocchina, un’altra degli occupanti di viale del Caravaggio, l’affitto della casa l’ha sempre pagato. «Sono arrivata a Roma nel 2009 tramite il ricongiungimento famigliare. Pagavamo l’affitto regolarmente e abitavamo a Palestrina, prima che mio marito perdesse il lavoro da operaio edile», racconta la donna a Domani: «Siamo stati ospitati per qualche anno a casa di mia sorella, ma poi i bambini sono cresciuti e avevamo bisogno di spazio. Non potevamo più vivere in un unico appartamento. Così abbiamo deciso di venire a vivere qui, in occupazione». E ancora: «oggi la vita con questo virus è diventata ancora più difficile. Mio marito svolge lavori saltuari, mentre io lavoro come assistente per le persone anziane e contemporaneamente frequento un corso da operatrice socio-sanitaria».

Continua Mina: «Andiamo avanti facendo sacrifici, ai nostri due bambini, uno di 10 e un altro di 4 anni, cerchiamo di non fare mancare nulla. Il più grande frequenta la quinta elementare alla scuola del quartiere, la Raimondi. Stiamo bene, anche se vivere in occupazione non è facile, ma un affitto a Roma non possiamo permettercelo».

Dal Marocco è venuto una decina di anni fa anche Jamal, uomo di 42 anni che vive qui in viale del Caravaggio insieme alla moglie e due figli. Pure lui l’affitto l’ha sempre pagato, «e anche piuttosto salato». Dice Jamal: «vivevamo a Cornelia, pagavamo 700 euro per una casa. Ho sempre lavorato da quando sono in Italia. Sempre come fruttivendolo. Ma quando è cominciata la pandemia, il mio padrone mi ha dovuto licenziare. Lavoravo in nero, così da un momento all’altro ho perso tutto ciò che avevo».

Il dialogo con le istituzioni

«Siamo in costante interlocuzione con la regione Lazio, che ci ha assicurato che lo sgombero non potrà avvenire, sia perché siamo in piena pandemia, sia perché all’interno delle strutture ci abitano numerosi bambini che hanno meno di 10 anni. In totale i minorenni qui dentro sono 70», spiega Anna Sabatini, che è una portavoce del coordinamento romano di lotta per la casa: «Ma le rassicurazioni se non sono supportate da fatti concreti, rimangono parole al vento».

Dice Sabatini: «Purtroppo la vertenza per il diritto alla casa, anche per l’assegnazione delle case popolari, è in mano al Comune di Roma. Con loro sulla vicenda Caravaggio è mancato qualsiasi dialogo. Abbiamo incontrato soltanto una volta il capo di Gabinetto della sindaca. L’unica proposta che è venuta fuori è l’assegnazione di dodici appartamenti nel comune di Civitavecchia». E poi conclude: «La sindaca Raggi ha rifiutato l’interlocuzione, perché dice che ci muoviamo nell’illegalità. Ma le persone non possono essere illegali, semplicemente hanno dei bisogni, che sono quelli di vivere dignitosamente e poter mandare i bambini a scuola. Non si possono sbattere le persone in strada, senza trovare per loro una soluzione, soprattutto in piena pandemia».

I medici degli occupanti 

Al sesto piano dell’edificio, l’equipe di Medici senza frontiere è impegnata nell’allestimento di un vero e proprio ambulatorio. Il personale sanitario della Ong ha affidato a un video (pubblicato sul sito di Domani) la testimonianza del lavoro svolto negli ultimi mesi. Matteo, che si occupa della logistica, riferisce: «Qui le persone, italiane e straniere, spesso famiglie con bambini, vivono in spazi limitati con bagni e aree in comune, e hanno visto la loro situazione economica deteriorarsi ulteriormente a causa del lockdown: Molte di queste persone non hanno un medico di base e faticano ad accedere ai servizi sanitari». 

Per questo, continua Matteo «Medici senza frontiere è attiva da aprile a supporto delle autorità locali e in particolare con la Asl Roma 2 ha implementato un sistema di sorveglianza sanitaria negli stabili occupati e in tutte quelle situazioni di disagio causate dall’assenza di una situazione abitativa adeguata, si tratta di una attività che finora ha permesso, con il coinvolgimento diretto delle comunità, di implementare misure di protezione e gestire le segnalazioni di casi sospetti. Lavoriamo in rete anche con altre associazioni del terzo settore, facciamo informazione, prevenzione, cerchiamo di arrivare lì dove le istituzioni da sole non possono arrivare».

Alessia, che invece è infermiera, conferma: «Agiamo come un vero e proprio ponte tra le persone e le istituzioni locali, sul piano delle attività strettamente sanitarie questo ambulatorio che stiamo allestendo all’ultimo piano dell’edificio è già pronto, anche soltanto per isolare eventuali casi sospetti di Covid. Sperando che possa non servire, intanto, forniamo gli strumenti». Per curare le ferite, anche sociali, di chi una casa non può permettersela. 

Credit photo, Vincenzo Livieri 

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