Le donne ospitate nelle case rifugio sono aumentate, ma le strutture residenziali che ospitano chi ha vissuto violenza di genere non sono ancora sufficienti. È un’indagine dell’Istat a fotografare la situazione delle case rifugio sul territorio italiano, strutture che hanno un indirizzo riservato o segreto, che ospitano – a titolo gratuito – donne anche con figli o figlie minori, che si trovano in situazioni di violenza e hanno bisogno di allontanarsi dall’abitazione usuale.

È una protezione che viene garantita indipendentemente dal luogo di residenza o dalla cittadinanza, e dal fatto che le donne abbiano o meno denunciato alle autorità. Servizi come questi sono richiesti dalla Convenzione di Istanbul, documento internazionale cardine nella prevenzione e contrasto alla violenza, che in Italia è entrato in vigore dieci anni fa, il 1° agosto 2014. All’articolo 23 la convenzione prevede «misure legislative o di altro tipo necessarie per consentire la creazione di rifugi adeguati, facilmente accessibili e in numero sufficiente per offrire un alloggio sicuro alle vittime, in particolare le donne e i loro bambini, e per aiutarle in modo proattivo».

Secondo la ricerca dell’Istat, nel 2023 l’offerta di case rifugio è cresciuta, non omogeneamente però: il territorio più fornito è quello del nord ovest, con il 36,4 per cento delle strutture, il nord-est ne ha il 23,7, mentre il sud e le isole registrano rispettivamente il 14 e il 13,8 per cento. Il numero più basso di rifugi si trova invece al centro della penisola, con il 12 per cento.

E, sottolinea l’Istat, «le differenze territoriali risultano ancora più marcate quando si tiene conto della numerosità della popolazione femminile nelle varie aree geografiche»: se nel nord-ovest il tasso è di 0,21 per 10mila donne residenti, nelle isole e nel nord-est sono rispettivamente 0,20 e 0,19. Costituisce «circa il doppio dell’offerta» rispetto al centro e al sud dove si attestano allo 0,09. 

A registrare il dato peggiore, Lazio, Piemonte e Sardegna. Sono invece Lombardia, Friuli Venezia Giulia, Emilia Romagna e Sicilia le regioni che hanno un tasso superiore di alloggi. 

In generale, in rapporto alla totalità della popolazione femminile, l’offerta è pari in media a 0,15 per 10mila donne residenti, che sale al 1,99 ogni 10mila donne vittime di violenza. 

Le persone ospitate

Nel 2023 sono state accolte in totale 7.731 persone per motivi legati alla violenza di genere, sia nelle case rifugio, strutture residenziali specializzate, sia presidi residenziali assistenziali e socio-sanitari, strutture residenziali non specializzate. 3.574 sono donne e 4.157 sono minori. Di questi, «2.875 sono i figli delle donne vittime di violenza accolte in casa rifugio, che potrebbero avere assistito o subito a loro volta la violenza», rileva l’Istat, mentre gli altri, 1.282, sono essi stessi vittime di violenza e ospitati in strutture non specializzate.

A partire dal 2017, anno in cui l’istituto di statistica ha iniziato il monitoraggio, le donne ospitate nelle case rifugio sono aumentate di circa il 71 per cento: se sei anni fa erano 1.786, nel 2023 erano 3.054. Nel 60 per cento dei casi, rileva l’Istat, si tratta di donne di origine straniera.

Un dato positivo che, però, non è ancora sufficiente: «165 case hanno segnalato la difficoltà ad accogliere donne per indisponibilità di posti» e, di queste, 51 «hanno dichiarato di avere bisogno di una capacità di accoglienza almeno tripla rispetto a quella attuale». In media, i posti letto autorizzati sono 7,2, ma di fronte alle molteplici richieste di accoglienza sono stati attivati più posti letto, dove è stato possibile, arrivando a una media di 8,6.   

Il percorso individuale

Oltre il 90 per cento delle strutture offrono servizi di orientamento e accompagnamento agli uffici giudiziari e agli altri servizi della rete territoriale, garantiscono il supporto psicologico e la consulenza legale, l’orientamento al lavoro e all’autonomia abitativa. 

Oltre l’87 per cento fornisce invece servizi rivolti a figlie e figli delle ospiti, come quelli educativi o sostegno scolastico o alla genitorialità. Anche in rete con altri soggetti, come i centri antiviolenza. E il 76,5 per cento mette a disposizione dei minori un sostegno psicologico dedicato.

È però al 38,4 la percentuale di donne che ha raggiunto gli obiettivi del percorso personalizzato di uscita dalla violenza, concordato con le operatrici della casa. Tra quelle che hanno lasciato la struttura, e di cui si conoscono i motivi della fuoriuscita, un ulteriore 26,6 per cento si è trasferito in un’altra casa o residenza privata, mentre l’11,8 ha abbandonato il percorso. C’è una parte di donne – l’11,6 – che torna a vivere con l’autore della violenza. Nel 2023 erano 227 donne. 

Le strutture e i gestori

Quattro case su cinque hanno un ente promotore privato che è specializzato nel sostegno e nell’aiuto di violenza di genere. I promotori di natura pubblica, rileva l’Istat, enti locali in forma singola o associata, sono perlopiù nel centro Italia, il 33,3 per cento. 

Mentre, si legge nel rapporto, il 97,6 per cento delle case rifugio riceve fondi pubblici. Ma «il valore più frequente dei finanziamenti pubblici è tra 25mila e 50mila euro e riguarda il 30,6 per cento delle case».

Un elemento molto positivo che rileva l’Istat è il livello di professionalità delle case rifugio, definito «molto alto»: il 95,6 per cento degli enti promotori privati e il 94,6 per cento dei gestori privati hanno più di cinque anni di esperienza in materia di contrasto alla violenza contro le donne. Non solo, il 74 per cento, scrive l’istituto, «ha maturato un’esperienza di oltre 13 anni, valore che sale a circa l’89 per cento tra gli enti che si occupano esclusivamente di violenza di genere».

Le garanzie di sicurezza

Ci sono infine diversi modi con cui viene garantita la sicurezza delle donne ospitate dalle case rifugio, a partire (nel 90,1 per cento dei casi) dalla segretezza dell’indirizzo. Ci sono poi «il servizio di allarme (46,7), la presenza di una linea telefonica diretta con le forze di polizia (28,5), il servizio di sorveglianza notturna (10,1) e quello di portineria (9,9 per cento). Solo il 3,5 per cento delle strutture dichiara di non aver adottato misure. 

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