C’è bisogno di personale e posti letto. E il presente fa molta più paura del passato. La Torino del semi lockdown è di nuovo rallentata. La frenesia è tutta negli ospedali: lettini dove capita, pazienti nei corridoi, in attesa di un ricovero su una barella anche un giorno intero, tamponi fatti solo se si sta male, e il tracciamento, se mai ha funzionato, oggi è solo un ricordo.

«Come viene dimesso un paziente, ne arriva subito un altro dal pronto soccorso», racconta Guido Calleri infettivologo all’ospedale Amedeo di Savoia. Qui era arrivato il primo paziente Covid piemontese. L’ospedale è stato la prima linea contro il virus e lo è ancora: ora è ripiombato nell’incubo di marzo, nelle corsie c’è l’affanno di chi lavora e il silenzio dei tanti pazienti che aspettano un posto. «L’ondata è forse più lenta, ma non sembra arrestarsi. Il personale sanitario voleva un lockdown prima», dice Calleri. Torino è vicina al collasso. Presto, si pensa al massimo una settimana, i numeri di aprile saranno raggiunti e superati.

Piano di emergenza

«Il mio compagno di 67 anni è stato su una barella per due giorni e mezzo al pronto soccorso delle Molinette. Pesa 130 chili ed è diabetico. Al terzo gli hanno chiesto se voleva andare a Tortona, a un’ora da qui», racconta Agnese. Ma lì c’è anche la mamma di Raffaele, 90 anni, anche lei in un reparto Covid, non si possono vedere. Un tempo tutto ciò sarebbe stato inammissibile. «Non è colpa del personale se gli ospedali sono pieni», aggiunge Agnese, «ora sono a casa in isolamento fiduciario, aspetto un tampone da dieci giorni».

La situazione nella regione è così critica da aver richiesto l’attivazione del Peimaf, Piano di emergenza in caso di massiccio afflusso di feriti. Viene attivato in casi eccezionali, come catastrofi naturali o attentati. Era il 3 giugno 2017 quando si è reso necessario: si trattava della tragica notte della finale di Champions League tra Juventus e Real Madrid, dopo la calca in piazza San Carlo, tutti i pronto soccorso si sono riempiti di feriti.

Il Peimaf dà la possibilità di approntare una serie di soluzioni di fortuna. Così com’è accaduto al San Luigi di Orbassano, con i lettini sistemati nella cappella. Sale congressi e aule, nessuno spazio è escluso, ma così si toglie personale agli interventi chirurgici. Al San Giovanni Bosco, alpini ed esercito hanno già allestito un ospedale da campo, il Mauriziano è allo stremo.

Cambia tutto anche per il personale sanitario, già sfiancato e con meno adrenalina rispetto alla prima ondata: reperibilità 24 ore su 24. «Ogni giorno arrivano pazienti sempre più gravi e le stanze si riempiono in fretta», racconta un medico del Centro traumatologico ortopedico di Torino. L’ospedale di recente ha aumentato l’impegno contro il Covid e tanti di quelli che arrivano qui finiscono direttamente in terapia intensiva. «La parte più difficile sono le chiamate ai parenti», dice.

La prima linea

Medici e infermieri vivono bardati con le tute isolanti per otto e più ore di fila, senza andare in bagno. «Non possiamo sprecare i dispositivi, quindi aspettiamo la fine del turno», dicono. Nei reparti si entra al mattino con l’idea di restare mezza giornata, ma si esce la sera tarda. Si torna a casa, giusto il tempo per dormire e si riparte.

I contagi crescono anche tra il personale: mille infermieri solo in Piemonte. I bandi che la regione ha messo in piedi nell’ultima settimana, sono una piccola pezza per un buco enorme. «Non si poteva agire prima coinvolgendo gli studenti di infermieristica degli ultimi anni?», è la domanda posta dall’ordine dei medici. «Dirottate il vostro personale sanitario verso il Piemonte», è stato l’appello alle ong di Alessandro Stecco, esponente leghista in regione, mentre c’è chi parla addirittura della possibilità di richiamare il personale positivo asintomatico in corsia.

In Croce Verde cercano volontari. Come Jacopo Marenghi, 31 anni, soccorritore che lavora di notte: «A ogni intervento dobbiamo tornare in sede per sanificare noi e l’ambulanza, è tutto più stancante e allunga i tempi di mezz’ora». Le chiamate per sospetti Covid non si contano più e spesso si tratta di trasferimenti di pazienti tra ospedali: «Ci siamo abituati a questa nuova normalità, ma vogliamo quella di prima, dove possiamo anche mostrare il nostro sorriso».

Sotto pressione

«La pressione sugli ospedali è forte, soprattutto nel trovare posti per i ricoveri ordinari, ma cerchiamo di resistere», dice Carlo Picco, direttore generale dell’Asl Città di Torino, che si confronta ogni giorno con i numeri che non rallentano. Confida nell’ospedale da campo in costruzione al Parco del Valentino: dieci giorni di lavoro per 458 posti previsti. «Le misure di lockdown mi sembrano blande, ma speriamo riescano a invertire la rotta», aggiunge. Gli ospedali privati che potrebbero dare una mano, sembrano non aver percepito la gravità del momento: «Purtroppo la risposta non è stata efficace come a marzo», aggiunge Picco. È stato il presidente della regione Alberto Cirio a sollecitare la disponibilità di nuovi letti.

A mancare sono soprattutto quelli necessari per le degenze che non necessitano cure ospedaliere. I cosiddetti “Covid hotel”, avrebbero aiutato ad affrontare il problema. Ma la regione ha emesso pochi bandi, molti andati a vuoto quest’estate. Il primo ha aperto a Torino solo dieci giorni fa.

Ma i guai sono anche alla base del sistema sanitario. «Prenoto al massimo due tamponi al giorno, poi il portale si blocca», contesta Gualtiero Furbatto, medico di base con 1.572 pazienti.

Sono troppe infatti le segnalazioni inviate rispetto alla possibilità di eseguire i test. Ormai il virus è sfuggito al contact tracing e lo si capisce dall’alta percentuale di positivi rispetto al numero dei tamponi. Meglio non va dal punto di vista dei vaccini antinfluenzali: «Ho ricevuto 200 dosi, poi il nulla. Ho disdetto tutte le prenotazioni per gli anziani che hanno diritto di precedenza, vista l’età e le patologie da cui sono affetti».

Molto del peso dell’emergenza è anche in questa seconda ondata sulle spalle dei medici di base, il dottor Furbatto passa le giornate tra telefono e assistenza a domicilio, e resta disponibile anche dopo lavoro: «Seguo 31 pazienti in casa, con terapie di supporto e ossigeno. Ma rispetto a marzo sono molti di più quelli che hanno bisogno di essere ospedalizzati, l’ondata è più grave».

Farmacia e funerali

La frustrazione passa anche dalle farmacie, ritornate loro malgrado, a essere spesso il primo sportello a cui i cittadini si rivolgono. A loro la regione ha affidato la prenotazione tamponi; peccato che dopo l’annuncio del 21 ottobre sia ancora tutto fermo.

«Mancherebbero 300 infermieri per far partire il servizio e non sappiamo che raccontare ai clienti», dice Antonietta, farmacista da 25 anni che lavora in un quartiere popolare.

Sembra di essere a marzo: tornano le scorte di mascherine e igienizzanti. «Le indicazioni date cambiano di continuo: abbiamo l’impressione di fornire ai cittadini informazioni non veritiere». Lei stessa si è scontrata con un sistema confuso e lento: «Dopo quattro giorni di febbre mia figlia aspettava un tampone. Nessuno sembrava sapere cosa andava fatto».

Nella prima settimana di novembre il numero di cremazioni è raddoppiato, rispetto a quella precedente. «Basta venire al cimitero per vedere quanto sono cresciuti i funerali», spiega Fabrizio Gombia, della Socrem, la Società per la cremazione di Torino.

In dieci giorni i morti in Piemonte sono triplicati e la curva dei ricoveri è in ascesa. I posti disponibili diventano sempre più risicati e i ricoveri aumentano di quasi 100 al giorno. La sera su Torino cala un silenzio surreale, le ambulanze come una macabra orchestra scandiscono ore e minuti, mentre negli ospedali non si dorme mai.

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